Sassari, il grido silenzioso dal carcere di Bancali: un sistema al collasso

  Un'altra notte insonne al carcere di Bancali, a Sassari. Un detenuto di 30 anni ha tentato di togliersi la vita, impiccandosi al montante della porta del bagno della sua cella. Solo l'intervento tempestivo degli agenti della Polizia Penitenziaria ha evitato l'ennesima tragedia dietro le sbarre. All'origine del gesto disperato, un permesso negato dal tribunale di sorveglianza. Un dettaglio che, in un contesto diverso, potrebbe sembrare insignificante, ma che qui assume il peso di una condanna senza appello. "Al cambio turno di mezzanotte, il detenuto ha tentato l'estremo gesto. Solo la prontezza e la professionalità dei colleghi hanno evitato il peggio", racconta Antonio Cannas, delegato del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (SAPPE). 

  Ma questo episodio non è un fulmine a ciel sereno. È l'ennesimo capitolo di una crisi che attanaglia le carceri sarde, riflesso di un sistema penitenziario allo sbando. Donato Capece, segretario generale del SAPPE, non usa mezzi termini: "Negli ultimi vent'anni, i nostri agenti hanno sventato più di 23 mila tentativi di suicidio e impedito che quasi 175 mila atti di autolesionismo avessero conseguenze fatali. Numeri che dovrebbero far riflettere chi ha responsabilità politiche e amministrative". Le carceri dell'isola sono sovraffollate, con strutture fatiscenti e personale ridotto all'osso. Gli agenti lavorano in condizioni proibitive, spesso senza gli strumenti necessari per garantire sicurezza e dignità, sia a loro stessi che ai detenuti. "Siamo al limite del collasso. Turni massacranti, mancanza di formazione adeguata, rischi continui per la nostra incolumità", prosegue Cannas. E i detenuti? Vivono in celle sovraffollate, senza supporto psicologico, senza programmi di reinserimento che abbiano un senso. La negazione di un permesso può diventare la goccia che fa traboccare un vaso già colmo di frustrazione e disperazione. Il tentativo di suicidio del trentenne di Bancali è un grido d'aiuto che non possiamo continuare a ignorare. Le proteste della Polizia Penitenziaria vanno avanti da mesi. Scioperi, manifestazioni, appelli caduti nel vuoto. La politica sembra sorda, impegnata in ben altre faccende. Eppure, la situazione delle carceri dovrebbe essere una priorità in un paese che si definisce civile. Non si tratta solo di garantire i diritti fondamentali ai detenuti, ma anche di tutelare chi, ogni giorno, mette a rischio la propria vita per mantenere un minimo di ordine e sicurezza all'interno degli istituti. 

  La Sardegna, in questo quadro, rappresenta un'emergenza nell'emergenza. Le sue carceri ospitano un numero di detenuti ben oltre la capienza massima, spesso provenienti da altre regioni, aggravando ulteriormente le difficoltà gestionali. Gli agenti sono costretti a fare i salti mortali, senza supporto e senza riconoscimento. Ma la realtà è che non possiamo più permetterci di girarci dall'altra parte. Ogni tentativo di suicidio, ogni atto di autolesionismo, è una sconfitta per l'intera società. Le carceri non possono essere dei gironi danteschi dove relegare chi ha sbagliato, sperando che il problema si risolva da solo. Serve una riforma seria, investimenti concreti, personale adeguato e formato. Il detenuto di Sassari è stato salvato, questa volta. Ma fino a quando potremo affidarci solo alla dedizione e al sacrificio di agenti lasciati soli a fronteggiare una situazione insostenibile? La domanda resta aperta, in attesa che qualcuno, nei palazzi del potere, decida finalmente di dare una risposta.

Cronaca

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