C’è un gelo che non è solo questione di gradi o di venti d’inverno. Un gelo che invade l’anima quando scopri che un neonato, nato per respirare la vita, è stato accolto da una macchina infernale che soffia aria fredda invece di riscaldarlo. Una culla termica, l’ultima speranza per chi viene al mondo senza una famiglia pronta ad abbracciarlo, trasformata invece in una trappola di ghiaccio. E perché? Per un climatizzatore non ricaricato, per un tappetino difettoso, per un allarme che non suona.
Non c’è rabbia che basti a raccontare il paradosso: una chiesa che offre rifugio, un parroco che si affida a un dispositivo “intelligente”, un tecnico che cambia l’alimentatore e garantisce il funzionamento. Poi, nel cuore della notte del 2 gennaio, tutto si rivela un inganno. Si accende il climatizzatore, come da programma, ma invece di avvolgere il neonato in un soffio caldo, lo accoglie con una ventata di gelo.
E quella creatura, che aveva già perso la protezione di una madre, muore forse di ipotermia, abbandonata due volte nel silenzio di un’apparecchiatura non verificata e di un tappetino difettoso che non segnala la presenza di un corpicino che chiede solo di vivere.
Tutto sembra dipendere da un “banale” malfunzionamento. Ma esiste davvero qualcosa di banale in questo intreccio di omissioni, in queste negligenze che riguardano la vita di un essere umano appena nato? Eppure eccoci qui, a contare responsabili e indagati per omicidio colposo e abbandono di minori, a scambiarci accuse e ipotesi, a cercare colpe in un manuale di istruzioni non letto o in una manutenzione trascurata. Ma chi pagherà il prezzo di questa leggerezza collettiva, di questa burocrazia pigra che lascia incompiuto persino l’ultimo rifugio di chi non ha altro?
Un parroco, unico destinatario delle chiamate d’emergenza, si trova ora a doversi giustificare: “Il climatizzatore non va regolato manualmente, fa tutto da solo. Avrebbe dovuto emanare aria calda, non fredda.” Ma non lo ha fatto. E il tecnico, che aveva appena sostituito l’alimentatore, assicura di aver verificato il funzionamento dell’allarme. Risultato: l’allarme, stimolato “in altro modo”, effettivamente suona, ma non ha captato il peso di quel bambino. E così la situazione sfocia in una tragedia: il piccolo muore, e noi stiamo qui a chiederci come sia possibile.
Dicono che dal materassino mancasse la pressione necessaria a far partire la segnalazione, che i sensori fossero spenti o difettosi, che il clima non fosse stato ricaricato e dunque soffiasse aria fredda, come in un’auto che resta senza gas refrigerante. A cosa serve tutto questo? A dimostrare che un filo di negligenza tira l’altro, fino a tessere la tela che strappa via la vita di un neonato indifeso.
Ora le indagini vanno avanti. Sequestrati il tappetino, la culla, il climatizzatore; tutti elementi da esaminare al microscopio, mentre scorrono i giorni e si gonfia l’indignazione. Ma il punto rimane: non c’è modo di restituire al piccolo la vita che gli è stata strappata da un’assurda combinazione di errori umani e sviste tecniche. Rimane solo da sperare che la morte di questo neonato non venga archiviata come “un’altra tragedia di cronaca”. Perché quando si gioca con la vita dei più deboli, quella parola – “tragedia” – diventa un macigno di cui tutti siamo colpevoli, se non impariamo a evitare che si ripeta.