In un'epoca in cui il "politicamente corretto" sembra regnare sovrano, ecco che scende in campo una nuova vittima: il generale Roberto Vannacci. Sospeso per undici mesi dal servizio, il suo crimine non è stato un atto di codardia né tantomeno un tradimento, ma il coraggio di esprimere un pensiero, di scrivere in un libro ciò che molti italiani pensano ma non osano dire. Questo atto è stato definito dall'alto comando come una "carenza del senso di responsabilità", una lesione al "principio di neutralità/terzietà della Forza Armata". Ma di quale responsabilità stiamo parlando quando un uomo che ha dedicato la vita alla patria viene messo alla berlina per aver usato la parola come arma?
È paradossale che nel XXI secolo, in una nazione che si vanta della propria democrazia, si assista a un simile spettacolo.
Un generale di lungo corso, con una carriera costellata di onorificenze e riconoscimenti, che ha rischiato la vita nelle zone più calde del pianeta per difendere i valori in cui credeva e proteggere i suoi connazionali, viene ora messo a tacere per aver osato esprimere un'opinione.
La decisione di sospendere Vannacci sembra un chiaro segnale: in Italia, la libertà di espressione è sottoposta al vaglio di chi detiene il potere, pronto a soffocarla non appena si discosta dalla linea dettata dal "politicamente corretto". Ma cosa c'è di così sconvolgente nelle parole di Vannacci da giustificare un'epurazione che ricorda i tempi più bui della nostra storia? La risposta è semplice: nulla. Nulla se non la paura di chi al potere teme il dibattito, la critica, la riflessione.
Questo episodio solleva interrogativi inquietanti sulla natura della nostra democrazia e sulla libertà di parola nelle istituzioni, soprattutto in quelle, come le forze armate, dove l'obbedienza e la disciplina non dovrebbero mai soffocare il pensiero critico e l'integrità morale.
L'epurazione di Vannacci non è solo un affronto alla sua persona, ma un attacco alla stessa essenza dei valori democratici che l'Italia dovrebbe incarnare. La vicenda del generale Vannacci non è solo la storia di un uomo punito per aver parlato, ma il sintomo di una malattia più profonda che affligge la nostra società: l'intolleranza verso il dissenso e la diversità di pensiero. Se non ci svegliamo e non difendiamo i nostri diritti fondamentali, oggi è Vannacci a pagare il prezzo della libertà di espressione, ma domani potremmo essere noi. È tempo di dire basta all'asservimento al "politicamente corretto" e di riaffermare i principi di libertà su cui si fonda la nostra Repubblica.