L'editoriale del caporedattore Trubia

L’Inquisizione social e il costo della distruzione di massa

  C’è una linea sottile che divide l’indignazione legittima dal puro linciaggio mediatico. Una linea che, nell’era dei social media, viene superata quotidianamente con una facilità disarmante. Il “caso Venditti” ne è solo l’ultimo, tragico esempio, ma potremmo fare una lista infinita di vittime di questa macchina infernale, fatta di commenti anonimi e giudizi sommari.

  Quello che è accaduto al cantante romano durante un concerto a Barletta è innegabilmente un errore umano. Ha frainteso una situazione, ha reagito in modo impulsivo, ma come tanti di noi ha chiesto scusa. C’è qualcosa di profondamente disumano, però, nel modo in cui una singola sbavatura viene oggi trattata sui social media. La gogna pubblica non si ferma più davanti a nulla. Non basta chiedere scusa. Non basta chiarire. Ogni parola, ogni gesto, ogni fraintendimento viene elevato a crimine capitale, con migliaia di giudici pronti a colpire senza pietà.

  Fino a qualche decennio fa, la macchina del fango era uno strumento pericoloso, ma riservato ai pochi che ne avevano accesso: politici, giornalisti, potenti. Oggi, invece, basta uno smartphone e la macchina si mette in moto. I social media hanno amplificato a dismisura questo meccanismo, trasformando qualsiasi inciampo in un evento globale. Ogni utente si sente legittimato a ergersi a giudice supremo, in un circolo vizioso in cui la moderazione e il buon senso scompaiono. L’anonimato garantito dallo schermo rende tutto ancora più crudele, più spietato.

  Il risultato è che non si giudica più l’errore, ma si distrugge la persona. Non importa la carriera, le esperienze, gli anni di contributi dati alla società o all’arte: un solo passo falso, e si viene marchiati a fuoco, senza possibilità di redenzione. Venditti oggi, ma domani chi? Politici, giornalisti, artisti, cittadini comuni: chiunque può diventare il bersaglio della macchina del fango. La rapidità con cui questi “processi social” avvengono è preoccupante. Pochi minuti, qualche video, e la sentenza è emessa. Colpevole.

  Ma dobbiamo davvero accettare che questa sia la nostra nuova realtà? È davvero questa la società che vogliamo, una società in cui la vita e la dignità di una persona possono essere spazzate via in poche ore, per un commento sbagliato o un gesto frainteso? Il “tribunale dei social” non conosce appello, non offre vie di uscita. In un clima del genere, è inevitabile che sempre più persone decidano di chiudersi, di fuggire, di rinunciare a esprimersi liberamente per paura del linciaggio.

  Chi sarà il prossimo a pagare il prezzo di questo sistema impazzito? I social media, nati come strumenti di connessione e libertà di espressione, si stanno trasformando in vere e proprie armi di distruzione di massa. Ogni post, ogni commento può diventare un proiettile. Il caso Venditti ci mostra ancora una volta che non esiste più una via di mezzo. Si passa dal disaccordo alla distruzione, dallo sdegno alla demolizione personale.

  Non siamo più di fronte a una questione di censura o libertà di parola. Qui si tratta di salvaguardare l’essere umano, la sua dignità, la sua possibilità di sbagliare e redimersi. La civiltà si misura anche dalla sua capacità di perdonare, di comprendere gli errori, di non scagliare la prima pietra. Se continuiamo su questa strada, rischiamo di perdere molto di più che una carriera o una reputazione: rischiamo di perdere la nostra umanità.

  Siamo messi male, sì. Ma forse c’è ancora tempo per fermarci, riflettere, e recuperare quel senso di proporzione e giustizia che ci sta scivolando via dalle mani.

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