Cecilia Sala, ventinove anni, giornalista col vizio della verità, non si è mai tirata indietro di fronte ai pericoli di questo mestiere. Aveva un visto in regola, i taccuini pieni di domande e la volontà di dare voce al mondo femminile iraniano, spesso costretto al silenzio dietro un velo di propaganda. Mohammad Abedini Najafabadi, trentotto anni, ingegnere informatico che gli Stati Uniti accusano di essere “l’uomo dei droni” dell’Iran, incappa nella Polizia di frontiera a Malpensa su ordine americano. Due nomi, un destino incrociato che, a metà dicembre, inizia a tessere le trame di una storia più grande di loro.
Tre giorni dopo il fermo di Abedini, i famigerati pasdaran arrestano Sala a Teheran. Le autorità iraniane giustificano la manovra con presunte infrazioni alle leggi locali, ma a Roma il sospetto si fa strada: e se il regime avesse trattenuto la nostra reporter come pedina di scambio, da opporre alla richiesta di estradizione di Washington? Da quel momento, sulla testa di Cecilia cala il silenzio del carcere di Evin, istituto tristemente noto per ospitare dissidenti politici e voci scomode. Nessun materasso su cui stendersi, luci sempre accese, nessun sostegno per la vista: una punizione che sa di ritorsione, più che di semplice fermo amministrativo.
Nel frattempo, mentre si alza il coro di #freeCeciliaSala sui social, il governo italiano si ritrova nell’occhio del ciclone: da un lato la Casa Bianca, che pretende l’estradizione di Abedini e non vuole sconti per chi, a suo dire, fornisce armi all’Iran. Dall’altro, Teheran, che nega ogni collegamento fra i due casi e bolla l’arresto dell’ingegnere alla Malpensa come “un atto illegale” ai danni di un cittadino iraniano. L’ambasciatrice d’Italia a Teheran, Paola Amadei, viene convocata d’urgenza. A Roma, il ministro degli Esteri Tajani convoca l’ambasciatore persiano e la premier Meloni, in un lampo, vola a Mar-a-Lago per incontrare il futuro presidente Donald Trump, cercando di fargli capire che la situazione è più spinosa di quanto sembri.
Da Evin, le richieste di Cecilia diventano un drammatico appello: un materasso, un paio d’occhiali, un po’ di buio in quella cella sempre illuminata. Ma la “generosità” delle guardie carcerarie è poca cosa: i pacchi dall’Italia restano bloccati, e la cronista continua a dormire a terra. In patria, cresce l’indignazione: “Rilasciatela subito!”. Ma ogni diplomazia, si sa, ha i suoi tempi, e qui la fretta rischia di far saltare i nervi a tutti: all’Iran, insofferente ai moniti europei, e all’Italia, preoccupata di non scontrarsi frontalmente con un’America che ha già perso la pazienza su questioni ben più calde.
Si arriva così al nodo centrale: la scarcerazione di uno potrebbe significare la liberazione dell’altra. Abedini, recluso a Opera in regime di massima sicurezza, è accusato di avere rifornito di componenti elettronici i Guardiani della Rivoluzione, i quali avrebbero impiegato quei droni in un attacco contro una base militare in Giordania, uccidendo tre soldati americani. Da Washington fanno sapere che, se l’uomo esce di galera, la “fuga” del trafficante d’armi russo Artem Uss (evaso nel marzo 2023 dagli arresti domiciliari italiani) risulterà solo il preludio a un nuovo caso di rottura dei patti fra alleati. Ma quando si tratta della vita di un giornalista, l’Italia non può stare a guardare.
La situazione si aggrava e sfiora la crisi diplomatica vera e propria. A inizio gennaio, la detenzione di Cecilia viene estesa, malgrado gli sforzi dell’ambasciatrice e dei vertici della Farnesina. La pressione cresce, fino a quando un sussulto di realismo politico imprime la svolta: la nostra connazionale esce dal carcere di Evin, con gli occhi stanchi ma la schiena dritta. La stessa mano che firma l’ordine di rilascio per la reporter deposita, però, anche la richiesta di revoca degli arresti per l’ingegnere iraniano: un sacrificio tutt’altro che indolore, giustificato col gergo ovattato dei diplomatici: “Scelte delicate, necessarie a tutelare un bene più alto”.
Così si chiude — per ora — una partita che vede tutti rientrare a casa, ma con la netta sensazione che la giustizia abbia ceduto il passo a un gioco più grande. Cecilia torna sana e salva, Abedini lascia il carcere. In mezzo, l’Italia si riscopre prigioniera di una realpolitik in cui i principi democratici contano, sì, ma non sempre quanto il pragmatismo dei rapporti internazionali. E, su tutto, grava l’ombra lunga di un Iran che pare abile nell’alzare e abbassare la tensione a suo piacimento, e di un’America pronta a ricordarci che di lei – e del suo potere di veto – non possiamo fare a meno.
Nel nome di Cecilia e di Mohammad, per qualche giorno il Paese ha guardato in controluce il meccanismo degli scambi internazionali, scoprendo che molto si muove al riparo dei riflettori. Forse la vicenda ci ricorderà che la libertà di stampa non è mai un affare chiuso e che chi ama questo mestiere, spesso, deve fare i conti con l’aritmetica impietosa della geopolitica. Nel frattempo, noi italiani tiriamo un sospiro di sollievo per la nostra cronista, ma ci resta addosso un senso di amaro, come quando si sorseggia un vino che ha fermentato troppo a lungo in botte. E la storia – lo insegna la cronaca – non finisce quasi mai al primo brindisi.