Viviamo nell'epoca dei "santoni da tastiera", quelli che in un post su Facebook si improvvisano filosofi orientali per commentare la morte di qualcuno che non sopportavano. "Eh, il karma" – scrivono, con una sufficienza che tradisce un'ignoranza sconfinata. Ignoranza non solo del concetto, ma di un’intera cultura, ridotta a una scorciatoia morale per giustificare il proprio rancore. Perché diciamolo chiaramente: quando uno tira in ballo il karma sui social, lo fa per dire che il defunto "se l’è meritata". Una sentenza da bar travestita da lezione zen.
E allora, facciamoci un favore: prima di continuare a profanare il termine, proviamo a capire di cosa stiamo parlando. Il karma, per cominciare, non è la punizione divina che cala dall’alto. Non è una versione spirituale del "così impari".
Non è nemmeno, e questo è il punto più importante, uno strumento per scaricare la nostra cattiveria sugli altri con un sorrisetto compiaciuto.
Il concetto di karma, nelle tradizioni orientali, è molto più complesso e, lasciatemelo dire, immensamente più serio. Non si tratta di una forza che punisce o premia secondo i nostri criteri morali occidentali, ma di una legge universale di causa ed effetto. Ogni azione, ogni pensiero, ogni intenzione lascia una traccia. È un intreccio di responsabilità personali e collettive, che non si limita a questa vita ma attraversa il tempo. Pensare che la morte di una persona antipatica sia "il karma" che fa giustizia significa non aver capito assolutamente nulla.
E poi, c’è la questione più triste di tutte: che genere di persona bisogna essere per gioire, anche implicitamente, della morte di qualcuno? Che genere di vite miserabili conduciamo se sentiamo il bisogno di mascherare il nostro astio con un concetto spirituale di cui non sappiamo nemmeno pronunciare correttamente l’origine sanscrita?
In realtà, quando uno scrive "è il karma" sotto il post di un necrologio, non sta parlando del morto. Sta parlando di sé stesso. Sta confessando, senza rendersene conto, la sua incapacità di affrontare la vita con empatia, con dignità, con un briciolo di decoro umano.
È il trionfo dell’immaturità emotiva, dove la necessità di avere l’ultima parola supera ogni barlume di buon senso.
E allora basta, davvero. Smettiamola di prendere in prestito parole che non capiamo. Smettiamola di usare il karma come una clava per colpire chi non c'è più. Se proprio vogliamo parlare di giustizia universale, iniziamo con noi stessi. Guardiamo il nostro di karma, quello che costruiamo ogni giorno con le nostre azioni, le nostre parole e, sì, anche con i nostri commenti sui social. Perché, e questo è il paradosso più grande, chi si riempie la bocca di karma spesso ne è la vittima più inconsapevole. E non serve essere buddhisti per capire che il mondo sarebbe un posto migliore se ci ricordassimo, ogni tanto, di chiudere la bocca e aprire un libro.