«Naturalmente la gente comune non vuole la guerra […]. Ma è sempre facile trascinarla, in una democrazia come in una dittatura». Parole attribuite a Hermann Göring durante i processi di Norimberga. Ciniche, spietate, ma non per questo meno vere. Perché, al netto della distanza storica e morale, quel passaggio mette a nudo una dinamica ricorrente: la costruzione del consenso alla guerra attraverso la paura, l’emergenza, la delegittimazione del dissenso.
Oggi, mentre la guerra bussa alle porte d’Europa e l’eco dei fucili ucraini si confonde con le dichiarazioni altisonanti dei leader europei, quel meccanismo pare ripresentarsi sotto nuove vesti. Emmanuel Macron parla di non escludere “l’invio di truppe europee in Ucraina”. Ursula von der Leyen evoca l’esigenza di un’“economia di guerra”. E nel frattempo prende forma il concetto opaco dei “paesi volenterosi”, un manipolo di Stati pronti a intervenire al di fuori di un consenso europeo unanime. Una formula che richiama quella usata per la guerra in Iraq nel 2003, e che in nome della libertà non esitò ad aggirare l’ONU.
Ma chi ha dato mandato a questi leader? Dov’è il dibattito parlamentare? Quando è stata consultata l’opinione pubblica europea su ipotesi tanto gravi? Forse la vera anomalia non sta nelle parole di Göring, ma nella leggerezza con cui, ancora oggi, si può parlare di guerra senza passare dalla democrazia.
Forse la vera anomalia non sta nelle parole di Göring, ma nella leggerezza con cui, ancora oggi, si può parlare di guerra senza passare dalla democrazia.
La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, tedesca, figlia di un alto funzionario della CEE, ha recentemente affermato che l’Europa deve prepararsi a un’“economia di guerra”. Una locuzione che, in altri tempi, avrebbe fatto sobbalzare i Parlamenti, e costretto i governi a confrontarsi apertamente con l’opinione pubblica. Oggi, invece, si prende atto. Si trascrive. Si commenta con toni neutri, come fosse una questione tecnica.
La guerra, nelle democrazie europee, torna a essere un oggetto di decisione esclusiva, elaborata nei vertici ristretti, tra le capitali che si autodichiarano “volenterose”. Un aggettivo che, nella sua ambiguità, cela la sostanza: un’Europa senza mandato, pronta a definirsi “pronta” a prescindere.
Nel frattempo, chi prova a interrogarsi viene immediatamente posto fuori campo, delegittimato secondo lo schema più antico: il dissidente diventa complice del nemico, il pacato analista viene arruolato nel fronte della viltà, il dubbio viene assimilato alla diserzione. Così si crea consenso, così si forma la nebbia.
Eppure, non siamo nel 1914, né nel 1939. Non esistono mobilitazioni di massa né entusiasmi popolari per i fronti. Nessun “andremo a Kiev per Natale”. C’è solo una assenza di dibattito sostituita dalla pressione diplomatica. Una pedagogia del timore: “Putin non si fermerà all’Ucraina”, “Domani toccherà a noi”. Ma se davvero è così, se siamo sull’orlo di un conflitto generalizzato, perché non si discute apertamente in aula? Perché le scelte sono affidate a vertici informali e dichiarazioni laterali?
Il paradosso è che oggi l’Europa si scopre militarmente risvegliata, ma politicamente sonnambula. E mentre l’idea stessa di guerra entra nel linguaggio comune delle cancellerie, ai cittadini si chiede di restare spettatori maturi: ascoltare, comprendere, approvare.
Non si tratta di fare dell’irenismo, né di negare la gravità dell’aggressione russa. Ma di ricordare che la guerra, in una democrazia, deve passare sempre dalla coscienza pubblica, dal voto, dal dibattito, dal dissenso. Non esistono “volenterosi” fuori dal diritto. E ogni scorciatoia in nome dell’urgenza si porta dietro un rischio più grande: quello di trasformare la cittadinanza in pubblico, e la politica in automatismo.
Alla fine, le parole di Göring non inquietano per il loro contenuto. Inquietano perché descrivono un meccanismo che conosciamo, che riconosciamo, e che — nei momenti peggiori — tollereremmo di nuovo.