Lo sguardo delle parole: il verbo vedere e l'arte della conoscenza

Esiste un primato della vista nel modo umano di abitare il mondo. Più che attraverso il tatto, più che attraverso l’udito o il gusto, è mediante gli occhi che l’universo ci si manifesta. Vedere significa esistere, significa riconoscere, e dunque comprendere. Non è un caso che il nostro stesso linguaggio sia intessuto di metafore visive: "hai capito?" si dice in italiano, ma spesso lo sostituiamo con un più istintivo "hai visto?". Perché comprendere è, in fondo, un’illuminazione.

Le lingue antiche, depositarie di una conoscenza più intuitiva e immediata, ci restituiscono questo legame profondo tra la vista e la coscienza. In greco, il verbo (horáo) significa "vedere", ma la sua forma al perfetto (opopa) aggiunge qualcosa in più: non è solo l’atto di guardare, ma il ricordo della visione, l’impronta lasciata nella memoria. Opopa significa "ho visto", ma con la pregnanza di chi, avendo visto, non può più ignorare. L’etimologia stessa suggerisce il compimento di un processo: il passaggio da una visione fugace a una conoscenza consolidata.

Non è un caso che anche in latino il verbo videre ("vedere") e il sostantivo visus ("vista") discendano dalla radice indoeuropea weid-, che originariamente non significava solo "guardare", ma anche "sapere, accorgersi, comprendere". Da questa stessa radice provengono parole come idea (dal greco eîdos, "forma visibile, aspetto"), evidenza (ciò che si mostra chiaro agli occhi e quindi alla mente) e prova (evidence in inglese, da evidens, "ciò che appare con limpidezza"). Vedere e sapere, due facce della stessa medaglia.

In italiano, le parole legate alla vista conservano questa stratificazione semantica profonda. Occhio, per esempio, deriva dal latino oculus, che a sua volta affonda le radici nell’indoeuropeo okw-, legato alla percezione visiva e alla luce. Da qui discendono anche il greco ?? (?ps), da cui derivano termini come "ottico", "oculista", ma anche "opulento", che in origine non significava "ricco", bensì "luminoso, splendente".

E poi c’è specchio, che viene dal latino speculum, legato al verbo specere, "guardare con attenzione". Dalla stessa radice derivano spectator ("spettatore"), speculazione (che originariamente significava "osservazione attenta", e solo in seguito ha assunto il senso di riflessione astratta) e persino ispettore, colui che "esamina con gli occhi". Non è forse straordinario che persino la nostra indagine filosofica e scientifica porti con sé il segno della visione?

Ma la vista non è solo chiarezza. Esistono i miraggi, le illusioni, le apparenze ingannevoli. Il latino videre ha dato origine a invidia, che originariamente significava "gettare uno sguardo maligno" (in-videre, "guardare contro", con ostilità). Un residuo di antiche superstizioni, quando si credeva che l’occhio potesse lanciare dardi di energia malevola, il famigerato "malocchio" (dal latino malum oculum).

Eppure, nonostante i suoi inganni, la vista resta il nostro primo strumento di conoscenza. Noi siamo, in fondo, ciò che vediamo. Il greco antico lo sapeva bene, tanto che opopa non è solo il perfetto di "vedere", ma anche un’epifania: una presa di coscienza, un sapere che ha toccato il cuore.

Chi ha visto, sa.

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