Bono - Durante i festeggiamenti di San Raimondo, la notte del 31 agosto, un cane anziano, sordo e cieco, è stato brutalmente picchiato da un gruppo di ragazzini. Alex, questo era il suo nome, ha resistito tre giorni di agonia prima di morire il 3 settembre. Perché? Per il "divertimento" di chi ha pensato di sfogare una rabbia inspiegabile su una creatura indifesa.
Non c’è retorica che regga davanti a un fatto così crudo. È la realtà di un gesto che, per quanto orribile, ci obbliga a riflettere su un male più grande: la diffusione di una violenza che oggi sembra trovare sempre meno freni. La notizia è rimbalzata sui social, ma non solo. Sui social è stata anche alimentata da commenti, da speculazioni, da una spettacolarizzazione morbosa che trasforma una tragedia in un fatto quasi ordinario.
È qui che nasce l’inquietudine.
La società contemporanea, con i suoi schermi che ci tengono connessi a tutto e distanti da tutto, ha forse contribuito a questo crescente distacco emotivo? La violenza, prima confinata a rari episodi che scuotevano la comunità, sembra ora un fenomeno sempre più frequente e condiviso, al punto che ci si sta abituando a essa. La crudeltà non è più confinata a gesti isolati; è amplificata, diffusa, a volte quasi incoraggiata da un clima di impunità emotiva.
Il sindaco di Bono, Michele Solinas, ha giustamente definito l'accaduto come «un'azione deplorevole e incommentabile». Ha aggiunto, con amara consapevolezza, che nessuna pena potrà mai essere sufficiente a reprimere la malvagità che alberga nel cuore di alcuni. Ed è qui che tocchiamo il vero punto dolente: cosa spinge un gruppo di giovani a massacrare un animale senza difese? Si può liquidare tutto con una semplice diagnosi di devianza o, peggio, di goliardia sfrenata?
Non possiamo chiudere gli occhi di fronte a quello che sta accadendo. Oggi è un cane, domani chi sarà la prossima vittima di una violenza che non risparmia nemmeno i più deboli? C’è una forma di malvagità che sembra trovare sempre più spazio nella nostra società: non quella crudele e calcolata, ma quella cieca, casuale, quella che si manifesta senza ragione apparente, come se il male fosse diventato un'opzione tra le tante.
E non possiamo ignorare il ruolo che la cultura digitale ha in tutto questo.
I social media, pur strumenti potentissimi di connessione, stanno anche contribuendo a un progressivo svuotamento di empatia. Non siamo più di fronte a gesti che ci sconvolgono. La brutalità diventa intrattenimento, i video circolano, si commenta, si passa oltre. Quella distanza che ci divide dallo schermo ci rende più insensibili, incapaci di provare davvero orrore.
La morte di Alex, che non disturbava nessuno, era semplicemente "nel posto sbagliato al momento sbagliato", è un monito.
Non possiamo pensare che tutto questo ci riguardi solo marginalmente. Siamo tutti chiamati a fare i conti con una società che, nel suo insieme, sta perdendo il senso del limite, il rispetto per la vita. E se non reagiamo ora, se non ci fermiamo a riflettere su dove stiamo andando, i prossimi Alex saranno sempre di più, in forme che non possiamo nemmeno immaginare.
Perché la brutalità non si ferma da sola. Ha bisogno di complicità, di un silenzio diffuso, di una legittimazione passiva. Ma ha anche bisogno di essere contrastata, non con le parole di circostanza, ma con gesti concreti. Ogni atto di violenza ci riguarda tutti, e la morte di Alex deve essere un momento di riflessione collettiva: è ora di smettere di voltare lo sguardo.