Il 25 novembre, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, avrebbe dovuto rappresentare un momento di riflessione, memoria e impegno per combattere una piaga sociale devastante. Invece, ancora una volta, assistiamo a una manifestazione stravolta da slogan ideologici e atti performativi, che spostano l’attenzione dal tema centrale a una narrazione confusa, imbevuta di marketing pseudo-politico.
A Roma, la piazza si è riempita di voci contro i femminicidi, un dramma reale e insopportabile che richiede azioni concrete e un cambio culturale radicale.
Ma accanto alle richieste sacrosante, è risuonato lo slogan “Disarmiamo il patriarcato”, accompagnato da gesti eclatanti: donne a seno scoperto, magliette strappate, la foto del ministro Giuseppe Valditara bruciata. Tutto questo, come se un’esibizione provocatoria o un’accusa generica contro un "sistema patriarcale" potessero in qualche modo tradursi in soluzioni per le donne che vivono quotidianamente la paura, il controllo e la violenza. Ma cosa c'entra questo con l’urgenza di fermare i femminicidi?
Le parole d’ordine si sono moltiplicate, svuotandosi progressivamente di significato. “Il corpo è mio e decido io” è diventato un mantra ripetuto quasi meccanicamente, senza affrontare i nodi reali della questione: la cultura della sopraffazione, il controllo maschile e l’incapacità dello Stato di proteggere le vittime. Ma a confondere ulteriormente il messaggio ci hanno pensato alcune attiviste che, vestite di nero, hanno chiesto il “cessate il fuoco in Palestina”, collegando arbitrariamente il conflitto israelo-palestinese al tema della violenza di genere.
Che senso ha mescolare tragedie globali con una giornata dedicata a un problema così specifico? Non una di meno, movimento che si definisce femminista, sembra voler inglobare ogni battaglia, ma così facendo svilisce il focus sul problema della violenza contro le donne, riducendolo a un capitolo di un’agenda ideologica più ampia.
Non manca, ovviamente, l’accusa al Governo. La foto di Valditara bruciata è stata accompagnata dall’accusa: “Questo è un governo patriarcale, non basta un Premier donna”. Non si discute che il governo possa o meno essere criticabile, ma attribuire ogni responsabilità alla parola “patriarcato” suona come una comoda scorciatoia per evitare di analizzare le vere falle di un sistema sociale e giuridico che non riesce a proteggere le donne.
Cosa propone questa piazza? Riforme legislative? Maggiori fondi per i centri antiviolenza? Una revisione delle misure cautelari per gli uomini accusati di stalking? Niente di tutto questo.
Slogan, performance e accuse generiche sembrano l’unico prodotto offerto. Intanto, le statistiche sui femminicidi continuano a salire, e ogni giorno altre donne vengono abusate o uccise.
Questa giornata dovrebbe essere un momento per ascoltare le voci delle vittime, riflettere sulle loro storie e costruire soluzioni che diano speranza. Invece, diventa il teatro di una lotta simbolica contro tutto e tutti, dove il dolore reale si perde dietro la ricerca di visibilità mediatica e atti simbolici che servono più al marketing politico che al cambiamento sociale.
Chiedere azioni concrete non è “reazionario”, è urgente. Perché dietro ogni donna abusata, uccisa o controllata c’è una famiglia spezzata, ci sono figli orfani, ci sono vite che si perdono. Ogni slogan senza azione è una promessa tradita. E ogni ideologia che distorce il messaggio tradisce le vittime.