Oggi si ripete, come ogni 25 novembre, il rito della sensibilizzazione sulla violenza contro le donne. Parole, iniziative, slogan. Tutto giusto, tutto necessario. Ma tutto, tristemente, sterile. Perché una giornata non serve a niente se non cambia ciò che la genera: una mentalità radicata, che permette e giustifica, che minimizza e volta lo sguardo altrove.
E allora la domanda vera non è come sensibilizzare, ma perché, nonostante ogni sforzo, questa mentalità non cambia.
La Sardegna, nel 2024, ci consegna dati che sono pugni nello stomaco: un aumento del 200% dei femminicidi rispetto all’anno precedente, 28 donne uccise negli ultimi sette anni. E sono solo quelle che hanno trovato la morte, perché a questo si aggiungono centinaia di violenze, percosse, atti persecutori.
Non basta dire che è un problema: bisogna interrogarsi sui freni che impediscono il cambiamento. Freni che non sono astratti, ma concreti, quotidiani, insinuati nella testa di chi crede che la donna sia un oggetto, una proprietà, una preda. Freni che vivono in chi, nel 2024, ancora pensa che una violenza sessuale possa essere provocata da una gonna troppo corta, o che una carezza trasformata in pugno sia “una cosa tra marito e moglie”.
Perché questa mentalità persiste? Perché la società, pur di non guardarsi allo specchio, preferisce colpevolizzare chi denuncia, proteggere chi abusa, trasformare le vittime in complici del proprio destino.
Il 74% delle donne che si rivolgono al numero verde 1522 non denuncia. Paura, vergogna, solitudine: è questo che impedisce di cambiare. E se non abbiamo il coraggio di estirpare questi freni, allora dobbiamo trovare il modo di scardinarli.
Ma come si scardina una mentalità? Non certo con una giornata l’anno. Serve educazione, non quella scolastica che si limita a distribuire libretti e organizzare incontri, ma quella che si impara in casa, negli sguardi e nelle parole, nei gesti dei genitori, negli esempi che diventano cultura. Serve una giustizia che non archivia, che non minimizza, che non lascia la vittima sola e l’aggressore libero. Serve una politica che smetta di usare il tema come vetrina e cominci a investirci davvero, con case protette, sostegno psicologico, percorsi di autonomia per chi fugge dalla violenza.
Oggi parliamo di violenza sulle donne, ma domani?
Domani tornerà il silenzio, quello stesso silenzio che copre le urla soffocate di chi subisce. E allora bisogna chiedersi, con brutalità: cosa ci impedisce di cambiare? Forse la paura di scoprire che questa mentalità non appartiene a un “loro” indefinito, ma vive dentro di noi, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità. Forse la paura di dover rinunciare al conforto delle scuse, degli stereotipi, del “ma è sempre stato così”.
Se davvero vogliamo combattere la violenza sulle donne, dobbiamo avere il coraggio di guardare questa realtà in faccia e risolvere il problema con le persone violente a prescindere dal sesso.
Non per un giorno, non con una pacca sulla spalla e un fiocco rosso appuntato alla giacca. Ma ogni giorno, con la determinazione di chi sa che combattere una mentalità non è solo un dovere morale: è una lotta per la civiltà. E questa lotta, o si vince, o si perde tutti.