Il mito dei semiconduttori e la verità nascosta: non è l’elettronica a scatenare la possibile guerra, ma la geografia e il prestigio imperiale

  Oggi si ripete ossessivamente che Taiwan sia importante perché produce il 60% dei semiconduttori mondiali. È il racconto dominante, insegnato nei corsi di economia e geopolitica, ribadito dai media, accompagnato dal fascino che l’inglese e l’industria hi-tech esercitano sulle menti contemporanee. Secondo questa visione, non sarebbe la posizione dell’isola o il prestigio strategico a contare, bensì i chip. Ma questa è una costruzione posticcia, frutto di un’interpretazione economicistica e di marketing geopolitico. I fatti storici sono lì a smentire questa narrazione semplificata: Stati Uniti e Cina si sono già scontrati intorno a Taiwan in passato, più volte. Negli anni Cinquanta si sparavano cannonate nello Stretto di Formosa, negli anni Novanta la tensione è esplosa di nuovo, e in quelle epoche Taiwan non era il produttore di chip che è oggi.

  L’evidenza suggerisce una conclusione ovvia: non sono i semiconduttori a rendere Taiwan cruciale. Essi aggravano semmai la situazione, rendendo l’isola ancor più appetibile per la sua ricchezza tecnologica, ma non ne costituiscono il fondamento strategico. La vera ragione è geopolitica, di potenza, di controllo dei mari. L’intelligenza artificiale, altro grande mantra dei nostri tempi, viene anch’essa caricata di un’importanza quasi mistica. Ma si tratta in gran parte di una narrazione: l’IA non è la rivoluzione definitiva, è un enorme accumulo di memoria, di potenza di calcolo. Ciò non cambia la natura umana, né il fatto che i ministri abbiano l’amante e che il mondo segua ancora le sue dinamiche di potere e prestigio di sempre. Come nella Rivoluzione Industriale si credeva che le macchine avrebbero sconvolto l’essenza dell’uomo, così oggi crediamo che chip e IA sovvertiranno del tutto il panorama globale. Ma alla prova dei fatti, la centralità dell’uomo e dei suoi impulsi, il calcolo politico e l’istinto a prevalere persistono. Taiwan era importante prima dei semiconduttori. Lo è per la sua posizione, per il suo valore simbolico, per il fatto di rappresentare uno stigma all’idea di un’Impero di Mezzo destinato a dominare il pianeta. Se la Cina aspira alla supremazia, come può tollerare di non riuscire a riannettere un’isola di fronte alle proprie coste, popolata da gente culturalmente diversa, con un’identità propria, e soprattutto protetta dalla principale potenza marittima del mondo, gli Stati Uniti? Non si tratta solo di geografia e di storia, ma anche di demografia e tempistiche. La Cina sta invecchiando rapidissimamente. Un dato fondamentale: nel 1971, all’epoca del primo viaggio di Kissinger a Pechino, l’età media dei cinesi era di 19 anni. Oggi è di quasi 40. Un paese che invecchia difficilmente sostiene guerre mondiali o conflitti su larga scala. Un popolo anziano non segue lo sforzo bellico con entusiasmo. 

  L’Italia, il paese più anziano del mondo (47 anni di età media), è anche il più pacifista. La Cina non è ancora all’età media italiana, ma ci si avvicina. Se davvero l’obiettivo è riannettere Taiwan prima che la popolazione diventi troppo vecchia per sopportare lo sforzo, allora la finestra temporale più pericolosa sono i prossimi 10-15 anni. Non significa che la guerra scoppi necessariamente. Ma se dovesse verificarsi, è più probabile ora che dopo, quando i cinesi saranno più avanti con gli anni e meno propensi ad approvare un conflitto lungo, durissimo, potenzialmente devastante. Inoltre, l’Italia stessa potrebbe trovarsi coinvolta per via della sua marina e delle sue alleanze, anche se il nostro paese ha una relazione paradossale col nucleare e con la potenza militare, considerandosi orgogliosamente denuclearizzato mentre i paesi confinanti hanno centrali ovunque. Dettagli che, nel complesso, dimostrano quanto il mondo sia interconnesso: una crisi a Taiwan potrebbe farci piombare dentro una guerra che neppure immaginiamo, con forze navali dispiegate in teatro lontanissimi da casa. Tutto ciò avverrebbe per ragioni storiche, strategiche, geopolitiche e di prestigio, non certo per dei chip. I semiconduttori, per quanto preziosi, sono solo una componente accessoria, non il motore principale del confronto. In definitiva, il mito che i semiconduttori siano la vera causa dei rischi di conflitto tra Stati Uniti e Cina su Taiwan è una costruzione che ci piace raccontarci perché riduce un drammatico confronto di potenza a una semplice questione economico-tecnologica. Ma, come si è visto, la storia ci insegna che Taiwan era già contesa quando non produceva nulla di tecnologicamente rilevante. Il problema è molto più antico, profondo e inquietante: riguarda l’identità cinese, la sua aspirazione a liberarsi dalla morsa americana che la imprigiona sulle coste, il voler dimostrare di essere una superpotenza capace di imporre la propria volontà. Non è una storia di chip, ma di uomini, Stati, geografia, memoria e potere.

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