Il Vecchio Continente nell’occhio del ciclone: Scholz zittisce Musk, Macron svela il nervo coloniale, Zelensky cerca Trump e l’Europa affonda nelle sue contraddizioni

  In un solo giorno, l’Europa intera sembra riversare su di sé il peso integrale delle sue contraddizioni, come se la storia contemporanea si fosse condensata in un istante capace di rivelare l’ingranaggio aspro di un continente smarrito. Mentre Olaf Scholz, cancelliere tedesco, interviene con misura sapiente per arginare le velleità di un miliardario americano che pretende di ridefinire l’ordinamento politico tedesco, Emmanuel Macron, nel remoto arcipelago di Mayotte, si lascia andare a una retorica stridente, sconfessando con tono brutale il fragile equilibrio postcoloniale della Francia. 

  Nel frattempo, tra i portici dorati di Bruxelles, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky cerca di convincere un’Europa stanca a mantenere la rotta, sperando che anche Donald Trump, ennesimo convitato di pietra di questo banchetto geopolitico, possa, in un futuro prossimo, aprirsi a una collaborazione che scongiuri la prospettiva di un conflitto congelato. Ma intanto, mentre gli sguardi dei leader si incrociano su piani diversi, a Gaza e nel Kursk la guerra continua a uccidere, le bombe decostruiscono ogni retorica, e l’illusione di un equilibrio appare evanescente. E come se non bastasse, nel pieno di questi contorcimenti europei, Elon Musk rilancia i proclami di un’influencer tedesca di estrema destra, inneggiando all’AfD come unica speranza per salvare la Germania, un’affermazione che suscita sconcerto e ribrezzo tra i partiti democratici tedeschi, e che obbliga Scholz a ricordare a tutti che la libertà di opinione, sacrosanta, non implica tuttavia l’automatica bontà di consigli politici improvvisati, soprattutto quando provengono da un uomo d’affari americano che non possiede alcuna familiarità con la complessità della storia tedesca. L’insorgenza di queste tensioni rivela la porosità di un continente in cui la sfera pubblica subisce continue infiltrazioni. 

  L’Ue, già scossa da scelte energiche e divisioni interne su migrazione, bilanci e modelli sociali, deve ora fare i conti con l’intervento di attori extracomunitari che, grazie alla potenza dei social media e al fascino perverso del capitale sterminato, non si limitano a scalfire l’immagine dei governi, ma provano a ridefinirne l’impianto identitario. Scholz, dal canto suo, avverte la necessità di riaffermare le regole della buona politica, rifiutando l’idea che la potenza finanziaria equivalga a saggezza.

  Nel frattempo, nel medesimo panorama, il presidente francese Macron, atteso forse a un contegno più regale, si lascia trascinare nei toni duri della polemica spicciola, ricordando alla gente di Mayotte, un frammento di Francia nell’Oceano Indiano, come senza la madrepatria sarebbero “nella merda”, espressione brutale che colpisce la sensibilità interna e internazionale. Questa uscita presidenziale squarcia il velo della retorica repubblicana, mostrando il volto di una Francia che deve ancora fare i conti con il proprio passato e con i legami delicati che la uniscono alle sue lontane periferie. È la conferma che anche le democrazie europee, illuminate e razionali, possono scivolare su toni che ricordano talvolta l’insofferenza di uno stato che non sa come gestire i propri protettorati, un lapsus che svela l’impaccio geopolitico della potenza ex-coloniale. Mentre i leader del Vecchio Continente si confrontano con i demoni interni ed esterni, sullo sfondo rimbomba la cronaca dei conflitti. A Gaza, un raid israeliano nel campo profughi di Nuseirat uccide almeno otto persone, innalzando a quindici il conteggio giornaliero delle vittime e ricordando a tutti che l’Europa, per quanto protesa a discutere del futuro, non può ignorare la croce mediorientale che costantemente la inquieta e la sfida. A est, nella regione russa di Kursk, il governatore denuncia un presunto attacco ucraino con sei morti, compreso un bambino. Le sofferenze dei civili si sommano senza sosta, trascendendo il gioco diplomatico e lo scontro di parole, scolpendo nel tessuto stesso della cronaca la crudeltà di una guerra che pare lontana dalle sale conferenze di Bruxelles ma che, in realtà, sta modificando gli equilibri mondiali. Nel mezzo di tali torbidi scenari, Zelensky si presenta di nuovo in Europa per sostenere che un cessate il fuoco senza un progetto di pace sarebbe un conflitto congelato, una condanna al limbo della sofferenza infinita. L’Ucraina non accetta mezze misure, chiede certezze, garanzie di sicurezza, l’ingresso nella NATO, un ancoraggio che la preservi dalla prepotenza russa. 

  E in quest’ottica diventa decisivo il rapporto con Donald Trump, potenziale futuro inquilino della Casa Bianca, l’uomo in grado di manipolare a piacimento l’alleanza occidentale. È notizia del giorno che, secondo il Financial Times, Trump chiederebbe agli Stati membri della NATO di innalzare la spesa per la difesa al 5% del Pil, continuando però, in contrasto con le sparate della campagna elettorale, a fornire armi a Kiev. Questo rivela un pragmatismo strategico sotto la corteccia nazionalista dell’ex presidente americano. L’Europa è dunque chiamata a una prova di lucidità, a comprendere che le linee rosse si ridefiniscono senza sosta e che il sostegno statunitense potrebbe diventare più costoso ma non meno necessario. La stessa Russia di Putin osserva la scena con cinismo consumato. Il Cremlino si dichiara aperto a negoziati che già definisce un compromesso, ma solo se fondati sulla realtà acquisita sul campo, lasciando intendere che Mosca non cederà i territori conquistati. Putin, con il suo lessico controllato e feroce, non riconosce la legittimità di Zelensky, poiché le elezioni in Ucraina non si sono potute tenere a causa della legge marziale. Dal canto suo, Zelensky afferma che il leader russo è pazzo, un nazista che ama uccidere. Le accuse fioccano, la propaganda si addensa, mentre l’Europa si interroga sul proprio ruolo. 

  A Bruxelles, i 27 cercano di allineare le posizioni, anche se al loro interno serpeggiano divergenze non banali: gli Stati baltici e i nordici resistono all’idea di un compromesso con Mosca, altri guardano a possibili scappatoie diplomatiche. L’Europa riflette, difendendosi a fatica dall’idea che la guerra possa incancrenirsi e mutare in un conflitto eterno, un trauma permanente alle sue porte. Intanto le parole di Scholz su Musk, la sortita di Macron a Mayotte, le tensioni su chi influenzi il discorso pubblico tedesco, i raid aerei su Gaza, le esplosioni nel Kursk, le richieste di Trump alla NATO, le speranze di Zelensky e i dilemmi di Putin, tutto si intreccia in un unico groviglio, una sorta di drammatico collage geopolitico. In questa arena convulsa, la libera opinione viene messa alla prova, si scontra con gli eccessi verbali, la disinformazione, le ingerenze straniere. 

  Macron grida rabbiosamente a una folla periferica; Musk gioca a fare il Grande Elettore europeo; Scholz erige una barriera di sobrietà contro la superficialità miliardaria; Zelensky implora chiarezza e alleanze solide, mentre il Cremlino pettina i suoi piani bellici con ostentata sicurezza. Su tutto, l’America di Trump riappare come un fattore perturbatore e decisivo, potendo in qualsiasi momento cambiare le coordinate della vicenda. L’Europa non trova pace, scossa da mille impulsi contraddittori, costretta a confrontarsi con i propri limiti, lacerata dai suoi fantasmi passati e incerta sui futuri assetti, a metà fra la necessità di stabilità e il tormento di una guerra che non si risolve. Questo faticoso carico di tensioni, svelato nello spazio di poche ore, dimostra con gelida chiarezza che l’equilibrio internazionale non è mai garantito, che basta poco per far emergere la fragilità degli assetti istituzionali, la precarietà degli ideali, la durezza di una realtà plasmata dal confronto fra poteri spietati.

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