Speriamo tutti di non vederla mai, la terza guerra mondiale. Eppure è sempre complesso stabilire dove un conflitto di portata globale possa scoppiare, ammesso che ne scoppino ancora e ammesso persino che le prime due guerre che abbiamo definito “mondiali” siano state davvero tali, almeno secondo la nostra lettura storiografica occidentale. Di certo, non è detto che i posteri studieranno le due guerre mondiali come le intendiamo oggi noi, né che le future guerre siano destinate a ricalcare quegli schemi. La prima guerra mondiale non fu realmente “mondiale” in senso stretto, mentre sulla seconda si può già discutere di più. Ma al di là di queste digressioni, una cosa è certa: una guerra di ampiezza e importanza globale potrebbe scoppiare anche per Taiwan. È una prospettiva che si teme, si analizza, e che appare tutt’altro che fantasiosa: la storia ci dice che dove meno te l’aspetti, un nuovo focolaio può divampare.
È successo nei Balcani più di una volta, un’area che produsse più storie di quante ne potesse consumare, come a Sarajevo ai primi del Novecento. Perciò non dobbiamo pensare che i grandi conflitti scoppino sempre nei punti più attesi: possono emergere in regioni meno considerate. Tuttavia, fra i luoghi dove oggi si concentra l’attenzione del mondo, Taiwan merita senza dubbio un posto tra i più possibili punti di innesco.
Perché proprio Taiwan? Per comprendere la rilevanza dell’isola, dobbiamo inserirla nella grande competizione tra Stati Uniti e Cina. Gli americani, che vivono un momento di depressione storica e psicologica, non possono abdicare al proprio ruolo egemonico. Rinunciare a confrontarsi con la Cina — estraniarsi da quella competizione — significherebbe davvero abbandonare l’idea di segnare ancora la propria epoca. Da grande impero che ha definito il corso del Novecento e degli inizi del Duemila, gli Stati Uniti non accetterebbero di consegnarsi a una fase di inedia geopolitica, come certi imperi del passato, mongoli o altri, che cedettero senza quasi combattere alla stanchezza del proprio dominio. Al contrario, Washington sembra determinata a giocarsi tutto con la Cina, ed è intorno a Taiwan che questa determinazione prende corpo. Gli USA sanno che non possono limitarsi a sonnecchiare su un dossier così critico: sarebbe come ammettere di lasciare il campo all’avversario asiatico, un epilogo che, almeno oggi, non intendono contemplare.
Ma allora, perché Taiwan è così cruciale? Con gli strumenti che abbiamo a disposizione — quelli dell’analisi superficiale, plasmata dalla vulgata economicistica — la risposta immediata è: i semiconduttori.
Abbiamo interiorizzato l’idea che l’economia decida i destini del mondo e quindi attribuiamo all’industria dei chip, del 60% della produzione mondiale localizzata a Taiwan, l’intera ragione del contendere. Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia, figlia del marketing occidentale, è spesso spacciata per la “rivoluzione delle rivoluzioni”: lo vediamo con l’intelligenza artificiale, celebrata come un mutamento epocale, quando in buona parte è la commercializzazione di un enorme accumulo di memoria. Figuriamoci allora i semiconduttori: come non vedere in essi la chiave di tutto?
Se però andiamo a guardare nella storia, scopriamo che Stati Uniti e Cina continentale (quella di Mao e dei suoi eredi) si sono già scontrati per Taiwan ben tre volte: due negli anni Cinquanta, una negli anni Novanta del Novecento. In quei periodi non c’era neanche l’ombra dei chip a Taiwan, nessuno li produceva, nessuno poteva immaginare il ruolo futuro dell’isola nella filiera tecnologica globale. I semiconduttori arrivano a Taiwan nei primi anni Duemila. Come si spiega allora l’importanza strategica di quest’isola prima che divenisse la fucina dei chip mondiali?
La risposta sta nella geografia e nella storia più profonda. Taiwan è posta a pochi passi dalla Cina continentale, con lo Stretto di Formosa che, nel punto più stretto, misura poco più di 150 chilometri. Ci sono isolotti appartenenti a Taiwan, come Kinmen, a meno di dieci chilometri dalla bagnasciuga della Repubblica Popolare Cinese. È chiaro che, anche senza considerare i semiconduttori, Taiwan costituisce una barriera tattica e strategica. Senza conquistare l’isola, Pechino non può davvero uscire in mare aperto, non può liberarsi della presenza americana che l’imprigiona sulle coste. La flotta statunitense vigila, complica l’accesso della Cina al Pacifico, limita la proiezione della potenza cinese e ne ridicolizza le ambizioni imperiali.
C’è poi un elemento psicologico e simbolico.
Per un Paese che si racconta come il futuro dominatore del pianeta, non riuscire a reclamare un’isola di poco più di 23 milioni di abitanti, peraltro discendenti di coloni, significa disgregare la propria narrazione di grandezza. La Cina dice di voler dominare il futuro, ma come può farlo se non riesce a riprendersi Taiwan, terra di fronte al proprio cortile di casa? Secondo la dottrina ufficiale del Partito Comunista, Taiwan dovrà tornare a Pechino entro il 2049, centenario della rivoluzione maoista. Se sarà necessario, anche con la forza. Questo rende l’isola un nodo potenzialmente esplosivo, ben oltre la questione hi-tech.
Infine, c’è la questione demografica. La Cina invecchia troppo in fretta. Nei primi anni Settanta l’età media era di 19 anni e mezzo, oggi è di quasi 40 anni. Un popolo anziano non sostiene con la stessa coesione uno sforzo bellico enorme. Sopra i 40-41 anni di età media, la capacità di imbracciare una guerra di grande portata è limitata. Ciò rende i prossimi 10-15-20 anni i più pericolosi per Taiwan. Se un conflitto è destinato a scoppiare, la finestra temporale è questa. Dopo, la Cina sarebbe forse troppo “vecchia” per mantenere il consenso interno necessario a un conflitto di simili dimensioni. La stessa logica spinge gli Stati Uniti a tenere alta la guardia: la vera competizione, il vero scontro potenziale, si gioca lì, e Washington non può ignorarlo.