“Io le imposte le pago volentieri. Con esse compro la civiltà”, scriveva Oliver Wendell Holmes jr., giudice della Corte Suprema statunitense. Leona Helmsley, ereditiera newyorkese, gli rispose mezzo secolo dopo con la sprezzante ironia dell’epoca dorata della speculazione: “Noi non paghiamo le tasse. Solo la gente comune le paga”.
Nel mezzo di queste due frasi, una sentenza morale e una constatazione cinica, si gioca da almeno quarant’anni la grande contesa politica che ruota attorno al sistema tributario. Una contesa che l’economista olandese Ferdinand Grapperhaus ha riassunto in modo efficace: “La lotta sulle imposte riflette quella tra i gruppi sociali”.
La tassazione, nel linguaggio corrente, è diventata un concetto scomodo, spesso distorto. Si parla di “tasse”, ma si intendono le imposte, ovvero ciò che lo Stato esige per finanziare i servizi pubblici: scuola, sanità, infrastrutture, sicurezza, previdenza. Il termine “tassa”, più ristretto tecnicamente, indica il corrispettivo di un servizio (il bollo auto, la retta universitaria, la mensa scolastica). Ma la confusione lessicale, quando è sistematica, non è mai solo ignoranza: spesso è ideologia.
Il fisco, da almeno due generazioni, è stato progressivamente svuotato della sua funzione redistributiva. Le imposte sul lavoro sono rimaste alte. Quelle sui patrimoni, sulle eredità, sui grandi profitti finanziari si sono ridotte o sono scomparse. La quota di ricchezza che proviene da rendita e capitale è cresciuta. E l’imposizione si è spostata sempre più verso chi produce reddito col proprio lavoro, soprattutto dipendente.
Un saggio pubblicato nel 2022 – scritto da un economista e uomo politico italiano Visco, con la collaborazione di Giovanna Faggionato – ripercorre con rigore questa trasformazione, ricostruendo le fasi della cosiddetta “guerra delle tasse”, che sarebbe più corretto chiamare per ciò che è: una guerra tra imposte, categorie e interessi. Eredità, immobili, rendite e profitti hanno guadagnato spazio fiscale e trattamento di favore, mentre salari, stipendi e redditi da lavoro autonomo hanno continuato a sostenere il carico.
Il caso emblematico raccontato dall’autore è quello della propria nipote undicenne, destinata a ereditare immobili da ben sette famiglie. Se le norme attuali non cambieranno, non pagherà imposte di successione rilevanti, non pagherà l’imposta sulla prima casa, e sulle rendite immobiliari godrà di regimi fiscali agevolati. Tutto questo senza lavorare un solo giorno. È il risultato di un sistema fiscale che ha smesso di distribuire secondo criteri di equità, e ha iniziato a consolidare la concentrazione della ricchezza.
Questo non è solo un fatto italiano. Negli anni ‘70 l’Irpef italiana contava 32 scaglioni e un’aliquota massima del 72%. Negli Stati Uniti, nello stesso periodo, la tassazione sui redditi più alti superava il 90%. Il gettito serviva a finanziare lo Stato sociale: scuola pubblica, sanità, trasporti, pensioni. Poi arrivò la curva di Laffer, tracciata su una tovaglia a Washington da un giovane economista per convincere Donald Rumsfeld e Dick Cheney che tagliare le imposte ai ricchi avrebbe aumentato le entrate statali. Era una menzogna teorica, smentita da ogni riscontro empirico. Ma era utile, e fu adottata.
L’idea che meno imposte significhi più crescita, che la ricchezza si distribuisca per osmosi, e che il capitale non debba essere toccato per non spaventare gli investitori, ha colonizzato l’Occidente. Reagan, Thatcher, e poi a cascata le destre di tutto il mondo – compresa quella italiana – hanno fatto propria questa visione. Ma anche le sinistre, intimidite dal nuovo senso comune, hanno finito per inseguirla.
Il risultato è stato un progressivo indebolimento del patto fiscale: lo Stato ha continuato a esigere molto da alcuni e sempre meno da altri. I sistemi tributari sono diventati lineari, semplificati, regressivi. La progressività, principio costituzionale, è stata sacrificata in nome dell’efficienza e della competitività.
Non è un caso che oggi, in Italia, la pressione fiscale sia sentita come oppressiva soprattutto da chi lavora, mentre chi eredita, possiede o investe gode spesso di un sistema indulgente. Lo confermano i dati: le imposte sulle società sono passate in media dal 45% al 24% negli ultimi trent’anni. Quelle sui grandi patrimoni, in molti Paesi, sono inesistenti. I sistemi fiscali moderni colpiscono poco o nulla i grandi capitali, mentre restano ancorati ai redditi da lavoro.
Il paradosso è che questo avviene mentre la quota del lavoro sul reddito complessivo si riduce: si è passati in molti Stati occidentali dal 65% al 50%. Chiedere sempre più risorse a una fetta sempre più piccola della popolazione significa costruire un modello instabile. Eppure, continua a prevalere una retorica anti-imposte che alimenta consenso, ma ignora la realtà.
Una realtà che non ha nulla di teorico. Le imposte sono la misura del patto tra cittadini e istituzioni. E quando tale patto si sbilancia, quando l’obbligo contributivo si fa selettivo e iniquo, la convivenza stessa si incrina. Si creano cittadini di serie A e di serie B: chi paga e chi no. Chi riceve e chi sostiene.
La sinistra ha pagato la propria subalternità a queste logiche. Ha smarrito il linguaggio della giustizia fiscale, lasciando campo libero a chi brandisce le imposte come nemico del popolo. Ma oggi, mentre il liberismo mostra i suoi limiti – tra diseguaglianze crescenti e crisi sistemiche – torna a imporsi il problema originario: chi contribuisce alla civiltà comune? E in che misura?
Il patto fiscale è lo specchio della società. E oggi, quello italiano, restituisce l’immagine di un Paese diseguale, stanco, e in parte rassegnato. In cui non tutti sono chiamati a partecipare allo stesso modo al bene collettivo. In cui si è smarrito il principio per cui pagare le imposte – con equità e proporzionalità – non è un castigo, ma l’essenza o il "prezzo" della cittadinanza.