Prima ancora di arrivare nelle sale, "Il ragazzo dai pantaloni rosa" – la pellicola ispirata alla tragica storia di Andrea Spezzacatena, quindicenne del liceo Cavour di Roma, vittima di bullismo e cyberbullismo – scatena reazioni che fanno riflettere su quanto, in fondo, la nostra società rimanga ostaggio di pregiudizi e viltà. Invece di confrontarsi apertamente con un dramma che ha portato alla morte un giovane, una parte di questo Paese preferisce nascondere la polvere sotto il tappeto, al riparo dalle luci, senza rischiare di vedere troppo da vicino le ferite che lascia.
È accaduto a Roma, dove un gruppo di studenti ha interrotto l’anteprima del film alla Festa del Cinema con fischi e insulti omofobi, parole sferzanti che il buio della sala ha lasciato libere di ferire ancora. Commenti che colpiscono come pugni: “froscio”, “gay di merda”, “ma quando s’ammazza”. L’impietosa ferocia di questi insulti non è una novità, eppure ogni volta ci ricorda che l'odio e la discriminazione sono sempre lì, pronti a colpire chiunque osi essere diverso. Ma non finisce qui: se a Roma c'è chi agisce nell’ombra, a Treviso ci sono genitori che preferiscono evitare del tutto la visione del film, temendo "influssi negativi" sui propri figli.
La preside della scuola ha ceduto, sospendendo la proiezione, un’ammissione implicita che affrontare queste verità possa essere pericoloso.
Due episodi, un’unica realtà: la cecità di una società che si crede moderna, e invece ricade nei più beceri pregiudizi. Il sindaco di Treviso, Mario Conte, ha commentato giustamente che "evitare di confrontarsi su questi argomenti non è la soluzione," ricordando come omofobia, depressione e suicidio siano temi che, ahimè, infestano ancora le nostre comunità. La sua decisione di organizzare comunque una proiezione pubblica del film è un atto di sfida, di chi crede che l’educazione al rispetto sia qualcosa di imprescindibile, anche quando la verità che ci presenta è scomoda e spiacevole.
In un post che non lascia spazio a fraintendimenti, Teresa Manes, madre di Andrea, ha denunciato il dramma di una società che preferisce girarsi dall’altra parte, incapace di offrire empatia e rispetto persino per chi non c’è più. “La parola è viva ed uccide. Io, di certo, non mi piego. Anzi, continuerò più forte di prima. Mio figlio non c’è più ma l’omofobia a quanto pare sì”. È un monito amaro, che pesa come un macigno su una società che non ha ancora imparato a guardare in faccia il problema, preferendo ignorarlo o, peggio, minimizzarlo.
Anche il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, ha parlato di “inciviltà, vigliaccheria, squallore” in relazione a quanto accaduto a Roma, spiegando che chi infierisce nel buio della sala lo fa perché sa di farla franca, colpisce come un vigliacco, sperando di non essere mai guardato negli occhi. Ma non basta denunciare o indignarsi; ciò che serve è un cambio di mentalità che vada oltre la retorica. Finché le parole contro il bullismo e l’omofobia resteranno confinate alle giornate dedicate, mentre ogni giorno ragazzi come Andrea continueranno a pagare il prezzo della loro diversità, non ci sarà progresso che tenga.
"Il ragazzo dai pantaloni rosa" non è solo un film, è uno specchio che riflette le nostre paure, i nostri limiti e il nostro fallimento come comunità. Evitarlo non rende i nostri figli più forti o più protetti; li lascia anzi più soli in una società che ancora non ha imparato a rispettare, ad amare e a proteggere. Se questa storia non ci scuote, non per Andrea o per sua madre, ma per tutti coloro che potrebbero essere le prossime vittime, allora cosa ci resta di umano?