La mappa del consenso politico globale è cambiata. Dove una volta i partiti di sinistra trovavano roccaforti solide – nelle periferie urbane, nelle zone rurali, tra operai e lavoratori precari – oggi emergono nuovi protagonisti: i movimenti populisti, soprattutto di destra. Questo mutamento non è frutto del caso, ma la conseguenza di decenni di abbandono politico, economico e sociale.
La nuova geografia del potere vede le città sempre più scollegate dalle periferie e dalle aree interne, non solo fisicamente, ma culturalmente e politicamente. Il populismo ha capito questa frattura e ne ha fatto il proprio terreno di conquista, lasciando la sinistra impreparata e incapace di riconquistare le sue basi tradizionali.
Il modello economico globale ha concentrato ricchezza e opportunità nelle grandi città, che sono diventate centri pulsanti di innovazione e progresso.
Qui si trovano le università, le multinazionali, le start-up, le infrastrutture avanzate. Ma questo dinamismo urbano ha un prezzo: ha lasciato indietro tutto ciò che si trova al di fuori delle metropoli.
Le periferie, sia quelle urbane che quelle geografiche, non sono state solo escluse dai benefici della globalizzazione, ma hanno subito le sue conseguenze peggiori: disoccupazione, impoverimento, spopolamento. In Italia, le aree interne del Mezzogiorno, le valli alpine e le zone industriali in declino del Nord sono esempi lampanti di questa dinamica. Luoghi un tempo vitali, oggi ridotti a simboli del fallimento del sistema.
Il populismo ha capito una verità fondamentale: mentre i partiti tradizionali inseguivano il consenso delle élite urbane, nelle periferie si creava un vuoto politico enorme. La retorica del “noi contro loro” si adatta perfettamente a questa frattura. Le città diventano il simbolo di un potere distante e indifferente, mentre le periferie si uniscono in una comunità ideale che rivendica dignità e riconoscimento.
Per chi vive nelle periferie, il populismo offre due cose fondamentali: protezione e identità.
La protezione è economica, culturale e sociale. I leader populisti promettono di difendere i lavoratori locali dall’immigrazione, di proteggere le piccole imprese dalla concorrenza globale, di garantire sicurezza contro il crimine. È una retorica che non si basa solo su promesse, ma che spesso utilizza un linguaggio viscerale, che tocca paure e sentimenti profondi.
L’identità, invece, è una risposta al senso di esclusione. Mentre la globalizzazione promuove una cultura cosmopolita e senza confini, il populismo celebra le radici locali, le tradizioni, il senso di appartenenza. Questo messaggio risuona particolarmente forte nelle periferie, dove il legame con il territorio è ancora vitale.
In Italia, la Lega ha capitalizzato su questi temi, trasformandosi da partito autonomista del Nord a movimento nazionale. Il successo della Lega nelle regioni del Sud, un tempo feudo della sinistra, dimostra quanto il populismo sia efficace nel parlare a chi si sente escluso dalla modernità.
La sinistra, nel frattempo, ha commesso un errore storico: ha abbandonato le periferie. Concentrandosi sulle città e sui temi progressisti – diritti civili, ambiente, parità di genere – ha perso di vista i problemi economici e sociali che affliggono le aree più marginalizzate.
Non è un caso che nelle periferie urbane, un tempo roccaforti della sinistra, oggi crescano partiti di destra populista. A Tor Bella Monaca, a Milano Rogoredo, nelle zone industriali del Bresciano, il voto operaio si è spostato a destra.
Questo spostamento non è solo il frutto di una retorica efficace, ma della percezione che la sinistra non sia più interessata a rappresentare i lavoratori.
Questa dinamica non riguarda solo l’Italia. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha vinto grazie al supporto delle aree rurali e delle piccole città del Midwest, dove la deindustrializzazione ha creato una crisi sociale devastante. In Francia, Marine Le Pen è il punto di riferimento per le periferie dimenticate dalle politiche centralizzate di Parigi. Anche in Germania, l’AfD (Alternative für Deutschland) ha conquistato consenso nelle regioni della ex Germania Est, rimaste indietro rispetto al resto del paese.
Il populismo, quindi, è un fenomeno globale che si nutre delle stesse dinamiche: centralizzazione della ricchezza, esclusione delle periferie, disuguaglianza crescente.
La nuova geografia del consenso politico mostra che le periferie saranno il campo di battaglia decisivo per il futuro delle democrazie.
Se i partiti tradizionali vogliono contrastare il populismo, dovranno ritrovare un legame con questi territori. Non basteranno più slogan o programmi astratti: servirà una presenza fisica, concreta, che dimostri attenzione e rispetto per chi vive al di fuori delle città.
Ma il populismo, con la sua capacità di intercettare emozioni e bisogni reali, non è disposto a cedere questo terreno. E fino a quando i partiti tradizionali continueranno a ignorare le periferie, queste resteranno il cuore pulsante del cambiamento politico globale.
Nel prossimo articolo, analizzeremo come il populismo sia riuscito a trasformare il rancore in una forza politica, esplorando le sue strategie per mobilitare il malcontento sociale e trasformarlo in consenso elettorale.