Quando si parla di populismo, la narrazione dominante lo descrive come una minaccia per le democrazie liberali, un fenomeno capace di minarne le fondamenta e portarci verso derive autoritarie. Ma la realtà è più complessa. Il populismo, prima ancora di essere un nemico del sistema, è il suo prodotto. È un risultato delle sue contraddizioni, delle sue promesse infrante e della sua incapacità di rispondere ai cambiamenti. La domanda fondamentale è questa: il populismo è un distruttore della democrazia, o può diventare il catalizzatore di un suo rinnovamento?
Il populismo non si sviluppa in un vuoto. Nasce e si rafforza laddove la democrazia liberale mostra i suoi limiti. La retorica populista evidenzia alcune delle più grandi contraddizioni del sistema: il distacco tra élite e popolo, la lentezza decisionale, l’incapacità di rispondere a crisi economiche, sociali e migratorie.
I leader populisti non inventano problemi: li amplificano, li portano al centro della scena politica. Parlano di disuguaglianze, di periferie abbandonate, di lavoratori impoveriti. Temi reali, che i partiti tradizionali spesso evitano o minimizzano. In questo senso, il populismo può essere visto come uno specchio che riflette ciò che la democrazia non vuole vedere.
Se le istituzioni democratiche fossero solide e capaci di rispondere ai bisogni dei cittadini, il populismo non avrebbe terreno fertile. Ma quando i cittadini percepiscono che il sistema è bloccato, inefficace o troppo distante, il populismo diventa un’alternativa credibile, per quanto pericolosa.
Un aspetto spesso ignorato è che molte istituzioni democratiche non sono così robuste come appaiono. La democrazia, nella sua forma moderna, si basa su un delicato equilibrio: il rispetto delle regole, la fiducia tra cittadini e rappresentanti, e la capacità delle élite di mantenere un contratto sociale minimo. Quando uno di questi elementi viene meno, l’intero sistema traballa.
Il populismo prospera proprio in questa fragilità. Non ha bisogno di abbattere il sistema per indebolirlo: basta metterne in discussione la legittimità. E questo accade ogni volta che un leader populista critica apertamente le istituzioni, denuncia la corruzione delle élite o sfida apertamente i limiti costituzionali.
L’esempio di Viktor Orbán in Ungheria è emblematico. Non ha distrutto la democrazia, ma l’ha svuotata dall’interno, utilizzando strumenti legali per consolidare il proprio potere. Questo modello, che viene definito “democrazia illiberale”, rappresenta una sfida diretta alla visione tradizionale delle democrazie occidentali.
Ma il populismo non è solo un fenomeno distruttivo. In alcuni casi, può agire come una forza rigeneratrice, costringendo il sistema a confrontarsi con i suoi limiti e a riformarsi.
Storicamente, alcuni movimenti populisti hanno avuto un ruolo positivo nel portare nuove voci al centro del dibattito politico e nel rompere l’immobilismo delle élite.
In Italia, per esempio, il Movimento 5 Stelle, nonostante i suoi evidenti limiti e contraddizioni, ha introdotto temi importanti come la lotta alla corruzione e la necessità di trasparenza nelle istituzioni. Anche se il loro impatto a lungo termine è stato limitato, hanno avuto il merito di scuotere un sistema politico che sembrava incapace di autoriformarsi.
Questo ruolo rigenerativo, però, non è garantito. Dipende dalla capacità del populismo di trasformare il proprio impeto iniziale in un progetto politico strutturato e sostenibile. Quando questo non accade, il rischio è che il movimento populista si trasformi in una forza destabilizzante, incapace di costruire alternative credibili.
Un tema fondamentale è quello della transizione dal populismo di opposizione al populismo di governo. Una volta raggiunto il potere, molti leader populisti si scontrano con la realtà: le promesse fatte in campagna elettorale sono difficili da mantenere, e il sistema che criticavano dall’esterno è più resistente di quanto pensassero.
Il caso di Donald Trump negli Stati Uniti è emblematico. La sua presidenza ha mostrato i limiti di un populismo incapace di costruire una visione politica coerente. Le sue promesse di “fare a pezzi il sistema” si sono spesso scontrate con la realtà delle istituzioni americane, che hanno resistito alle sue pressioni.
Lo stesso vale per molti populismi europei. Una volta al governo, partiti come il Movimento 5 Stelle in Italia o Syriza in Grecia si sono trovati intrappolati tra le loro promesse e le regole del sistema internazionale.
Questo dimostra che il populismo, per quanto potente in fase di opposizione, fatica a trasformarsi in una forza di governo stabile.
Il populismo non è né un nemico assoluto né un alleato della democrazia. È una sfida inevitabile, che costringe il sistema a fare i conti con le sue contraddizioni. Per le istituzioni liberali, ignorare il populismo o demonizzarlo non è una soluzione. È necessario affrontare le cause profonde che lo alimentano: disuguaglianze economiche, distacco delle élite, lentezza decisionale.
Ma il populismo, per sopravvivere, dovrà a sua volta evolvere. Non basta criticare: servono risposte concrete, visioni di lungo termine, capacità di costruire. Il futuro della democrazia dipenderà dalla capacità di entrambi – sistema e populismo – di adattarsi e di rispondere ai bisogni dei cittadini.
Con questo articolo si chiude la nostra rubrica sui populismi, un fenomeno che, nel bene e nel male, rappresenta il grido di un tempo inquieto. La domanda che resta è se questo grido sarà ascoltato, o se continuerà a risuonare inascoltato, fino a trasformarsi in un urlo di rottura.