C’è un elemento che spesso sfugge quando parliamo di Facebook, Instagram o WhatsApp: non sono semplici piattaforme social. Sono i pilastri di un impero basato sui dati, un colosso che ha trasformato i nostri clic, like e interazioni in una miniera d’oro. Ma come ci siamo arrivati? E qual è il prezzo da pagare per un servizio apparentemente gratuito?
Per capire il punto di partenza, dobbiamo tornare ad Harvard, nel 2003, dove un giovane Mark Zuckerberg, studente brillante ma controverso, lancia il suo primo progetto digitale, Facemash. Era un sito apparentemente banale: gli studenti votavano chi fosse più attraente tra due compagni di università. Il sito, chiuso dopo pochi giorni per questioni legali, mostrò subito il potenziale della raccolta di dati personali su scala digitale. E Zuckerberg ne fece tesoro.
Il passo successivo fu TheFacebook, lanciato nel 2004, una piattaforma inizialmente riservata agli studenti di Harvard. In meno di un anno, grazie a un team di sviluppatori e all’intuizione di aprire il sito ad altre università, Zuckerberg si trovò a gestire una rete che collegava migliaia di studenti.
Quel che all’epoca sembrava solo un modo per connettersi con i propri amici si rivelò una rivoluzione: gli utenti fornivano spontaneamente dati preziosi sulla loro vita, creando un ecosistema perfetto per chiunque volesse studiare i comportamenti umani.
Questa raccolta, però, non si limitava ai semplici profili. Con l’introduzione delle Facebook Ads, nel 2007, il sistema pubblicitario cambiò per sempre. Non più annunci generici, ma pubblicità mirate, basate su interessi, attività e preferenze personali. Facebook non era più un semplice social network: era diventato uno strumento di marketing senza precedenti, capace di targhettizzare gli utenti con una precisione mai vista.
Nel 2012, Zuckerberg compie un’altra mossa strategica acquistando Instagram per un miliardo di dollari, una cifra che sembrava astronomica per un’app con soli 30 milioni di utenti. Ma Zuckerberg non stava comprando solo una piattaforma: stava acquisendo un nuovo bacino di dati, un nuovo modo per entrare nella vita degli utenti, questa volta attraverso le immagini.
E poi arrivò WhatsApp, nel 2014, con un’acquisizione da 19 miliardi di dollari. Anche in questo caso, non era solo l’app a interessare Meta, ma la possibilità di integrare le informazioni raccolte su tre piattaforme diverse: Facebook, Instagram e WhatsApp. Un ecosistema connesso, dove ogni interazione contribuiva a perfezionare il profilo pubblicitario degli utenti.
Ma cosa fanno davvero le aziende con questi dati? E soprattutto, chi li controlla? Meta sostiene di non vendere dati a terzi, ma di utilizzarli per ottimizzare le inserzioni pubblicitarie. Eppure, scandali come Cambridge Analytica, esploso nel 2018, hanno dimostrato quanto sia fragile il confine tra uso legittimo e abuso. In quel caso, i dati di oltre 87 milioni di utenti furono utilizzati per creare campagne di propaganda politica, sollevando interrogativi sulla sicurezza e sull’etica di queste pratiche.
Oggi Meta continua a crescere, nonostante i tentativi di regolare il settore. La recente introduzione di un abbonamento a pagamento per utilizzare le piattaforme senza pubblicità sembra più un tentativo di rispondere alle critiche che una reale rivoluzione del modello di business. La verità è che i nostri dati restano il cuore pulsante dell’impero di Zuckerberg.
Ma a questo punto, la domanda è: siamo davvero consapevoli di ciò che mettiamo in gioco ogni volta che apriamo queste applicazioni? E soprattutto, possiamo davvero fidarci di chi ha trasformato le nostre vite digitali in un business miliardario?
Nel prossimo articolo approfondiremo come Meta ha integrato la sua strategia sui dati con l'acquisizione di Instagram e WhatsApp, analizzando il potere e i rischi di un monopolio globale.