L’incitamento era martellante “Alagremus las mans, no munta achescia cua, ananchi mus sem rumint, ajò ajò muglievus. Superfluo tradurre, il senso era a senso unico,muoversi. Nasceva così, per reazione a quelle grida brutali, un ritornello lento e beffardo “lu cucciu amaga l’oss, lu cucciu amaga l’oss, la gatta s’anabigia i ni li futti l’oss” ripetuto in controvoce alle grida dei capi squadra. Che si calmavano. Capitava talvolta che la pace ed il silenzio veniva rotto da un grido, un tagliatore di grappoli, tagliava il dito del suo compagno, in mezzo ai pampini non si vede bene e la fretta gioca tiri mancini. Un grappolo spremuto sulla ferita faceva scorrere succo di uva e sangue e tutto si sistemava. Il sudore colava in rivoli che si mischiavano con l’onnipresente succo di uva “ lu ciuc de raim” denso e appiccicoso che faceva da legante con la polvere rossa della terra, si formava una crosta che aderiva sulla pelle in modo anatomico, era la riproduzione perfetta di ogni singola piega. La sete si faceva sentire, “ l’algueri” il portatore di acqua, disperso fra i filari alleviava la sete e l’arsura con un bicchiere di acqua, sempre lo stesso, uno per tutti, bere troppo fa male, diceva lui e la fontana era lontana da raggiungere. Il prezioso liquido era contenuto in vecchie barriche di legno, con un tappo di sughero recuperato da chissà quale bottiglia, era normale che con l’acqua venisse giù qualcosa di non identificato che si buttava via, ma non l’acqua, ciò dava diritto al secondo bicchiere, che fortuna. L’ora di pranzo,il mezzogiorno sospendeva le fatiche, all’ombra degli alberi di eucalipto un pranzo frugale, qualche minuto di rilassamento pensando al fresco mare e una voce come un tuono “ ajo a la tira” ti riportava alla realtà.
Un'ora passa in fretta quando si è stanchi. Si riprendeva il lavoro, si tornava ai propri filari, si ripeteva lo stesso copione. Altri carrelli riempiti di uva, sincronizzando il trasporto della bacinella con il passaggio di quella ragazza, il tempo e la fatica non si sentivano, passa il tempo si aspettava la voce del capo squadra per portare tutti l’uva al carrello. Era finita la giornata. Rientrare alla borgata in bicicletta, depositare la bacinella, lavarsi alla fontana erano azioni defaticanti, predisponevano alla pedalata, le energie ritornavano, sembrava di essere più energici del viaggio del mattino e così che quelle ruote si facevano ali per il folle volo di ritorno. Un unica tappa, con le poche salite spianate dalla generale pendenza in discesa, Alghero era laggiù in basso. Alla sera, immancabile la passeggiata al lungomare, incontrarsi e fare combricola con le stesse persone che avevano lavorato in vigna “a la varemma” per parlare di cosa? “De la varemma!” Così per tutti i giorni della settimana, il sabato giorno di paga, pedalata di piacere, destinazione Azienda Sella&Mosca per ritirare il sudato salario. La domenica mattina, se si passava ai giardini tra il bar di Useri e la fontana, i capi squadra “selariati fissi”, residenti ad Alghero, si riposavano sulla panchina e parlavano di...”varemma”, impossibile non salutarsi a vicenda, loro salutavano citando il nostro cognome, noi in segno di rispetto rispondevamochiamandoli per nome “ciù Antoni, ciù Giusè, cosi per anni anche se alla vendemmia non si andava più, ma il saluto la domenica mattina se passavi davanti alla panchina era dovuto da ambo le parti e con piacere. Piano piano in quella panchina aumentavano i posti liberi, sino a diventare deserta, ma un saluto mentale a ciù Antoni, ciù Giusè, “selariati fissi” a Sella&Mosca ogni volta che passo lì davanti non manca mai.