La crisi del 2008 non è solo un evento economico, ma l’espressione di un sistema che, per avidità e cecità, si è scavato la fossa con le proprie mani. Spesso se ne parla come di una “tempesta perfetta” scoppiata all’improvviso, ma in realtà si andava preparando da anni, nell’indifferenza generale e nell’incapacità di valutare appieno le conseguenze delle proprie azioni. L’America, cuore finanziario del pianeta, si era convinta che il denaro potesse generare altro denaro all’infinito, senza passare per l’economia reale, senza tenere conto del valore effettivo degli asset, senza riconoscere i limiti di un sistema costruito su regole fragili. E lo strumento che per eccellenza avrebbe dovuto simboleggiare la sicurezza, il mattone, si trasformò nel cavallo di Troia della rovina: mutui concessi a chiunque, famiglie senza garanzie, persone prive di un reddito stabile, tutte spinte ad acquistare case che non avrebbero mai potuto permettersi.
Siamo negli Stati Uniti dei primi anni 2000, in un Paese in cui avere una casa di proprietà non è solo un desiderio, ma un tassello fondamentale del sogno americano. Le banche commerciali hanno colto l’occasione: con i tassi di interesse abbassati dalla Fed per far ripartire l’economia, concedere mutui diventa una pioggia di opportunità. Prima si chiedeva solidità finanziaria ai richiedenti, poi il criterio di affidabilità scende, fino a dissolversi quasi del tutto.
È l’età dell’oro per il settore immobiliare: chiunque voglia comprare casa può farlo, la logica è “cogli l’attimo”. In pochi si pongono il problema del dopo: i mutui subprime, concessi a chi non avrebbe mai superato i controlli di pochi anni prima, contengono clausole con tassi variabili che possono impennarsi da un momento all’altro. Quando la Fed ricomincia ad alzare i tassi per raffreddare l’economia, le rate esplodono. Ma al principio nessuno se ne cura: finché i prezzi delle case salgono, la banca è serena, può sempre pignorare e rivendere l’immobile a un valore maggiore. L’illusione, però, poggia su fondamenta pericolanti.
Le banche commerciali non si limitano a concedere mutui, li impacchettano in strumenti finanziari noti come CDO, li cartolarizzano e li vendono. A comprare sono banche d’investimento, fondi, assicurazioni e chiunque voglia puntare su un mercato immobiliare apparentemente invincibile. Le agenzie di rating valutano questi pacchetti come se fossero pepite d’oro: tripla A, sicurezza totale, anche quando dentro ci sono prestiti concessi a persone senza alcun reddito.
È l’incompetenza mascherata da efficienza, la schizofrenia di un sistema che si autoalimenta senza chiedersi se la struttura reggerà. E quando alcuni investitori più lungimiranti, come Michael Burry, decidono di “scommettere contro” il mercato immobiliare, cercano di assicurarsi contro il suo fallimento. Le banche d’investimento, convinte di avere di fronte degli ingenui, offrono strumenti finanziari – i Credit Default Swap – che promettono protezione in caso di crollo. Un’assicurazione su un meccanismo che si finge invincibile, ma è solo un gigantesco castello di carte.
All’alba del 2007 tutto sembra funzionare. I mutui subprime volano, i prezzi delle case non hanno mai toccato quote così elevate, i profitti crescono. Ma sotto questa superficie brillante, un’America sempre più indebitata inizia a mostrare crepe. Gli stipendi non aumentano, i tassi di interesse si impennano, le rate dei mutui si fanno più pesanti. Milioni di persone pagano molto più di quanto avevano preventivato. Molti non comprendono nemmeno i contratti che hanno firmato. E nel momento in cui la solvibilità di intere fette di popolazione è a rischio, i primi mattoni del castello cominciano a sgretolarsi.