L'11 novembre 1918, le armi tacquero. Il suono delle granate che laceravano corpi e coscienze fu sostituito da un silenzio inquieto, un’apparente tregua che annunciava la fine della Prima Guerra Mondiale. Ma il silenzio della vittoria e della sconfitta non bastò. Milioni di morti, milioni di feriti, e un mondo che si risvegliava in un paesaggio di macerie e ossa sparse. Gli uomini tornavano a casa mutilati, irrimediabilmente segnati; i campi erano devastati, le città crollate, le nazioni esauste.
Ciò che restava era un Europa che, pur vittoriosa o sconfitta, si riscopriva spezzata, rovinata dalle stesse mani che avevano firmato gli accordi di pace.
La “pace” del 1918 è stata una delle promesse più crude della storia moderna. I sopravvissuti tornarono a casa per scoprire che avevano combattuto e perso tutto per una causa che mai avevano compreso. E quella stessa “pace”, una pace imposta a furia di debiti e patti, seminava il terreno per una seconda guerra più devastante ancora.
Non ci fu vera pace, solo una pausa, un respiro strozzato prima di una nuova discesa nell’abisso.
Ci guardiamo intorno oggi, a un mondo in cui la terza guerra mondiale non è più un incubo, ma una possibilità concreta. Sappiamo fin troppo bene come si creano le guerre, come si alimentano le ostilità e come i governi mascherano le ambizioni economiche dietro gli slogan di libertà e difesa. Ci sono Paesi interi, come l’Ucraina, che stanno pagando il prezzo di una battaglia che non è mai stata solo loro. E poi il Medio Oriente, dove ogni passo è una scintilla potenziale, un terreno impregnato di sangue, diviso tra forze che non cercano la pace ma la predominanza.
La storia sembra beffarsi delle nostre lezioni, e noi, a oltre un secolo dalla fine della Prima Guerra Mondiale, siamo seduti su un campo minato, osservando le dinamiche della geopolitica globale con un amaro senso di deja-vu.
I politici di oggi ci parlano di “stabilità”, “equilibrio” e “dissuasione”. Ci assicurano che la “deterrenza” impedirà il peggio. Ma dov’erano le loro deterrenze nel 1914? E nel 1939? Guardiamo all’equilibrio fragile che ci circonda con la consapevolezza di chi conosce la storia e sa quanto poco siano bastati un colpo, un attentato, un ultimatum mal calibrato per innescare catastrofi inarrestabili. Abbiamo visto gli arsenali nucleari crescere e moltiplicarsi, i leader politici mostrare i muscoli, gli stati alleati dividersi in blocchi sempre più rigidi, più chiusi, con confini sempre più invalicabili.
Il prezzo del silenzio che calò l’11 novembre 1918 è stato, in fondo, una guerra più violenta. Che prezzo pagheremo se il silenzio di oggi – le dichiarazioni di “rispetto” e “neutralità” – sarà, ancora una volta, una mera illusione?