La rivalità tra Roma e Veio era come quella tra due vicini di casa che si odiano a morte. Veio era tutto ciò che Roma non era: ricca, presuntuosa, e, soprattutto, convinta di essere intoccabile. Roma, invece, aveva le tasche vuote e i nervi tesi come corde di violino. Quando i Romani guardavano Veio, vedevano una città arroccata sui propri privilegi, una rivale da abbattere e un trofeo da conquistare. Veio era lì, a un tiro di sasso, una manciata di chilometri che parevano un’eternità, separati solo dal Tevere. Ma quel fiume, prima o poi, i Romani lo avrebbero attraversato.
La guerra contro Veio fu un’impresa epica, ma anche una lezione di ostinazione e, diciamocelo, testardaggine alla romana. Dieci anni di assedio, con i Romani a battere la testa contro le mura della città come martelli.
Era una guerra logorante, combattuta più con la pazienza che con le spade. Ma Roma era disposta a tutto: la sua fame di potere cresceva con ogni stagione, e i soldati restavano accampati anche durante l’inverno, mandando in fumo l’abitudine che voleva le campagne militari chiuse con l’arrivo del freddo. Veio, con tutta la sua arroganza, si sentiva ancora al sicuro. Ma Roma, si sa, è paziente. E se non arriva alla vittoria con la forza, ci arriva con l’astuzia.
Fu allora che il Senato chiamò in causa un uomo che di compromessi non ne aveva mai sentito parlare: Marco Furio Camillo. Un osso duro, per dirla tutta. Camillo era un dittatore senza fronzoli, uno di quelli che si fanno capire senza mezzi termini e che preferiscono i fatti alle chiacchiere. Fu nominato con pieni poteri per portare avanti l’assedio di Veio, e lui non ci mise molto a capire che per vincere quella guerra, serviva fare qualcosa di più della solita carica contro le mura. Così, ordinò ai suoi uomini di scavare sotto la città, di sfondare le difese dei Veienti dalla parte più insospettabile: dal sottosuolo. Camillo sapeva bene che l’attesa logora, e che la vittoria vera si conquista con il cervello, non solo con i muscoli.
E fu così che, finalmente, Roma irruppe a Veio. La città cadde come un frutto maturo, e i Romani si presero tutto: i templi, le case, i tesori. Fu un saccheggio senza rimorsi, uno spettacolo brutale, e Camillo permise ai suoi soldati di prendersi ciò che volevano.
D’altra parte, erano anni che quel bottino veniva sognato accampati sotto il cielo, mangiando polvere e pane duro. Roma usciva dall’assedio con le casse piene e, per la prima volta, con la consapevolezza di poter mettere sotto chiunque. Veio era solo l’inizio, e i Romani cominciavano a capire che questa storia di dominare la penisola poteva davvero funzionare.
Ma ogni vittoria ha il suo prezzo, e Camillo lo sapeva bene. Con la conquista di Veio, Roma ottenne nuove terre e risorse, ma anche nuovi problemi. I patrizi, sempre pronti a difendere i propri privilegi, non erano affatto felici di vedere i plebei ottenere una fetta delle nuove terre. Temendo di perdere il controllo, cominciarono a opporsi con la solita solfa: “Le terre devono restare nelle mani giuste”. Insomma, i patrizi volevano tutto per sé, mentre la plebe, che aveva marciato e lottato a fianco dei legionari, pretendeva una parte del bottino. Il Senato si trovò presto a fare da arbitro in un gioco pericoloso, dove la vittoria militare rischiava di trasformarsi in una guerra interna.
Camillo stesso, che aveva visto i suoi uomini combattere e morire, capiva che non poteva ignorare le richieste dei più poveri. Per evitare una rivolta, il Senato decise di distribuire una parte delle terre ai veterani e ai cittadini plebei, un compromesso che forse non piaceva ai patrizi, ma che serviva a tenere insieme la baracca. Roma, insomma, cominciava a scoprire che governare un popolo in ascesa non era una passeggiata, e che le vittorie all’esterno spesso si pagano con tensioni all’interno.
Camillo, nel frattempo, divenne un eroe, osannato per la sua astuzia e per il coraggio dimostrato. Ma anche lui sapeva che la vittoria su Veio era solo il primo passo. Roma aveva messo le mani su un territorio importante, sì, ma questo significava anche nuovi nemici, nuove guerre, e soprattutto una fame di conquista che non si sarebbe mai più placata. La caduta di Veio aveva insegnato ai Romani che l’ambizione non ha limiti, e che la loro città non era destinata a fermarsi lì.