Ecco la scena: una giovane studentessa iraniana, Ahou Daryaei, che si spoglia in un’aula universitaria di Teheran, lasciando scoperti non solo corpo e anima, ma anche le vergogne di un regime incapace di tollerare qualsiasi forma di dissenso. La sua protesta contro la polizia morale è un atto che avrebbe fatto tremare le fondamenta di qualsiasi sistema autoritario.
Ma come risponde l’Iran? Con la solita toppa: "era malata".
Già, perché in un regime come quello degli ayatollah, chi osa sfidare l’ordine imposto non può essere che squilibrato. Nessuna accusa formale, dicono. Non per umanità, ma perché la diagnosi di "malattia" è perfetta per chiudere il caso senza intaccare il dogma dell’infallibilità del sistema. Ahou non è più una dissidente: è una povera ragazza da affidare alle cure della famiglia.
Una strategia comoda e vigliacca, che insulta non solo lei, ma chiunque in Iran lotti per un minimo di libertà.
E mentre si cerca di mettere una pezza, la scena internazionale si scalda. Trump scalpita per tornare alla Casa Bianca e promette di fare i conti con Hezbollah, ben radicato in Iran. C’è un mondo che osserva e che si domanda quanto a lungo un regime potrà continuare a vendere giustificazioni puerili mentre reprime qualsiasi scintilla di libertà.
Ma torniamo a lei, Ahou Daryaei. La sua malattia, se così vogliamo chiamarla, ha un nome: libertà.
È il virus che i regimi temono di più, quello che si diffonde senza preavviso, che non si cura con le sbarre di una prigione o con il paternalismo di un’autorità che pretende di sapere cos’è meglio per tutti.
Non è una malattia, ma un’infezione collettiva che prima o poi esploderà. E forse, tra qualche anno, guardando indietro, ci si ricorderà di Ahou, della sua ribellione in slip e reggiseno, come di un gesto che ha segnato l’inizio della fine per chi ancora crede di poter soffocare la libertà con le scuse più patetiche.