Si parte dalla Corrasi, da Oliena, dove Gianfranco Zola cominciò a tracciare il suo destino tra polvere di campi sterrati e sogni cuciti su scarpe che volevano volare. Era un trottolino, Zola. Quei piedi fatati che parevano dipingere arabeschi anziché calciare un pallone. Fu la Nuorese la prima a scoprire quel genio tascabile, poi la Torres, dove iniziò a incantare segnando 21 gol. La Sardegna però, per quanto amata, cominciava a stare stretta. Troppo talento per rimanere confinato su un’isola. E allora l’Olimpo si aprì quando Luciano Moggi, all’epoca direttore generale del Napoli, vide il suo futuro scritto nei piedi di quel ragazzino e lo portò sotto il Vesuvio.
Napoli, gli anni ’90.
Era la città di Diego Armando Maradona, il re indiscusso. Ma accanto a quel dio, c’era un apprendista che osservava, ammirava e cresceva. Zola si stendeva sull’erba a fine allenamento e studiava ogni tiro del Pibe de Oro, come uno studente devoto al suo maestro. E da quell’osservazione maniacale nacquero traiettorie che avrebbero fatto storia: punizioni a giro, parabole che sfidavano le leggi della fisica. Non si può dire che imitasse Maradona, perché Zola aveva il suo stile, la sua grazia. Eppure, quel periodo a Napoli lo forgiò.
Quando il Napoli lo chiamava in causa, Gianfranco non deludeva mai. Assist chirurgici, tocchi deliziosi, punizioni telecomandate. Era come se la magia scendesse in campo ogni volta che il piccolo sardo toccava palla. Ma, inevitabilmente, venne il momento di spiccare il volo da solo. E così Zola approdò al Parma, dove la sua stella brillò nel firmamento della Serie A.
In maglia crociata, Zola si consacrò definitivamente. Fu protagonista in Europa, vinse trofei e guadagnò un posto nella rosa azzurra per i Mondiali americani del 1994. Ma la sua avventura si concluse dopo soli 12 minuti, per una delle espulsioni più discusse e ingiuste della storia del calcio italiano. Un’ombra che, tuttavia, non offuscò la sua ascesa. La classe non si nasconde, e il destino gli riservava ancora una tappa leggendaria: l’Inghilterra.
Quando arrivò al Chelsea, Zola non era un semplice acquisto. Era il colpo di genio, l’uomo che avrebbe cambiato il volto del club. La stampa britannica, solitamente critica, lo accolse come un artista. Lo ribattezzarono The Magic Box, la scatola magica, perché ogni volta che apriva il suo repertorio, usciva fuori qualcosa di straordinario. Dribbling, tocchi deliziosi, gol da cineteca. Ma c’era di più: Zola incarnava il fair play. Non era solo un campione, ma un uomo di valori.
Per questo gli venne conferito il titolo di Ufficiale onorario dell'Ordine dell’Impero Britannico, un onore riservato ai pochi che lasciano il segno oltre il campo.
Ma la Sardegna, come tutte le madri, chiama sempre i suoi figli a casa. E Zola rispose. Tornò al Cagliari e contribuì alla promozione in Serie A nella stagione 2004/2005. Quei gol, quelle giocate, fecero innamorare i tifosi rossoblù, tanto che ancora oggi Magic Box occupa un posto d’onore nella top 11 della storia del club. Quando appese le scarpette al chiodo, lo fece con la stessa eleganza con cui giocava: senza clamore, senza pretese, consapevole di aver dato tutto.
Passò dalla panchina, provando a trasmettere il suo genio ai giovani, guidando la Nazionale Under 16 e collezionando esperienze come allenatore. Ma Zola è uno di quei giocatori che non appartengono solo al passato: il suo ricordo è vivo, fresco, come le immagini di quelle punizioni che partivano dal suo piede e finivano puntualmente sotto l’incrocio.
Gianfranco Zola è stato più di un giocatore. È stato poesia calcistica. La sua carriera, dai campi polverosi di Oliena alle luci di Stamford Bridge, è una delle pagine più belle scritte dal calcio moderno. E quelle pagine continueranno a essere lette da chiunque ami questo sport. Perché la classe di Magic Box non ha scadenza. Come tutte le opere d’arte, è destinata a vivere per sempre.