La libertà d’insegnamento è sacrosanta, lo dice la Costituzione. Ma quando un corso universitario come "Teorie queer" viene trasformato in una questione di Stato, la domanda è inevitabile: stiamo discutendo di cultura o stiamo recitando l’ennesimo teatrino politico? La ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, ha provato a gettare acqua sul fuoco: l’insegnamento è libero, l’autonomia universitaria va rispettata, ma se c’è un reato, la magistratura farà il suo corso. Bene, ma non benissimo.
Perché in un Paese che sembra incapace di affrontare dibattiti complessi senza scadere nel tifo da stadio, ogni pretesto diventa uno scontro ideologico.
La querelle sulle teorie queer ne è un esempio lampante. Da un lato, chi vorrebbe censurare l’università in nome di una moralità retrò che non regge il confronto con il mondo reale. Dall’altro, chi si arroga il diritto di trasformare le aule in pulpiti per lanciare messaggi politici mascherati da cultura.
Eppure, il cuore della questione dovrebbe essere un altro: che cos’è l’università oggi? È ancora un luogo dove si sviluppa il pensiero critico o si è ridotta a un’arena dove si combattono le battaglie ideologiche del giorno?
La libertà d’insegnamento, tanto decantata, rischia di diventare una foglia di fico se non si accompagna a un’assunzione di responsabilità. Autonomia non significa anarchia, e il confine tra sapere e propaganda è sottile, ma va rispettato.
La Bernini, con il suo atteggiamento da equilibrista, prova a tenere insieme i pezzi di un sistema che scricchiola. "Nessun uso di fondi pubblici", garantisce il Ministero. E allora di cosa stiamo parlando? Di un corso che ha avuto il torto di toccare un nervo scoperto: la capacità, o meglio l’incapacità, di affrontare temi come l’identità e la sessualità senza isterismi.
Forse è questo il vero scandalo: non il corso in sé, ma la reazione che ha scatenato.
Se c’è un rischio, è che l’università si trasformi in una caricatura di se stessa. Libera solo a parole, ma in realtà ostaggio delle polemiche. E allora, la domanda finale non è se un corso sulle teorie queer abbia diritto di esistere, ma se noi siamo ancora in grado di discutere senza ridurci a tifoserie. Forse, prima di preoccuparci dei corsi, dovremmo preoccuparci di noi stessi.