In Sardegna si continua a parlare di integrazione, ma spesso più nei convegni che nella realtà. Questa volta, il progetto si chiama Simba e coinvolge una serie di attori istituzionali e sindacali pronti a rimboccarsi le maniche per favorire l’inclusione sociale dei giovani migranti. Obiettivo nobile, senza dubbio, ma quanto concreto?
La presidente di Anolf, Genet Woldu Keflay, ci crede e parla di azioni mirate: completamento degli studi, inserimento lavorativo, incontri formativi e tanto altro.
Numeri importanti: 200 minori stranieri non accompagnati, 100 giovani migranti under 24, 50 ragazzi di seconda generazione. Senza contare i 300 studenti sardi coinvolti per favorire il dialogo interculturale. Sembra tutto perfetto sulla carta, ma sappiamo che la realtà è spesso un’altra.
L’idea di creare sinergie tra migranti e autoctoni attraverso incontri e sportelli informativi è sicuramente un passo avanti rispetto al solito “lanciare proclami”, ma rimane da chiedersi quanto questa integrazione sia realmente sentita e voluta dalle comunità locali.
Perché, diciamolo chiaro, la Sardegna ha sì una tradizione di ospitalità, ma la pazienza degli abitanti rischia di essere messa a dura prova quando l’inclusione diventa un concetto imposto dall’alto.
Inutile girarci intorno: parlare di diritti e doveri, come propone il progetto, è fondamentale, ma solo se accompagnato da una reale responsabilizzazione di tutti i soggetti coinvolti.
L’integrazione vera non è una parola scritta su un manifesto, ma il risultato di anni di lavoro serio, non certo di qualche sportello o incontro formativo. E soprattutto, richiede che tutti, migranti compresi, facciano la loro parte. Se questo progetto saprà andare oltre le belle intenzioni e produrre risultati tangibili, sarà un successo. Altrimenti, finirà nel solito cassetto delle iniziative inutili.
Per ora, il progetto Simba è una promessa. Ma le promesse, si sa, sono facili da fare e difficili da mantenere. Staremo a vedere.