In Italia, ogni politico che finisce sotto indagine vince sempre: se assolto, trionfa come martire contro un sistema giudiziario ostile; se condannato, diventa la prova vivente di un complotto orchestrato dalle toghe contro la democrazia.
L’ultima a inserirsi in questo copione è Giorgia Meloni, che ha annunciato pubblicamente di aver ricevuto un avviso di garanzia per favoreggiamento e peculato nella vicenda legata al rimpatrio del comandante libico Almasri. Non è sola: con lei sono indagati i ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano. Un'inchiesta che ha infiammato lo scontro politico, con la maggioranza a fare quadrato attorno alla premier e l’opposizione che ne chiede conto in Parlamento.
Meloni ha subito lanciato un affondo: “Il procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi, lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona, mi ha appena inviato un avviso di garanzia”. Un messaggio non casuale, volto a suggerire l’idea di un sistema giudiziario che si accanisce contro la destra, e che a volte lo fa invano. Un’affermazione che, pur non esplicita, lascia intendere molto.
Ma la questione va ben oltre la singola vicenda giudiziaria.
Da anni, la politica italiana utilizza le indagini come strumento di lotta mediatica: ogni avviso di garanzia diventa un’arma, ogni tribunale un palcoscenico. E la magistratura, volente o nolente, finisce per essere parte del gioco. Meloni, Nordio e Piantedosi non sono i primi a vivere questa dinamica, e certamente non saranno gli ultimi.
L'indagine nasce da un esposto presentato dall’avvocato Luigi Li Gotti, che accusa il governo di aver rimpatriato Almasri, sul quale pendeva un mandato di cattura del Tribunale penale internazionale dell’Aia. La premier si difende, spiegando che il comandante libico era stato liberato dalla Corte di appello di Roma e che la sua presenza rappresentava una minaccia per la sicurezza nazionale. Tuttavia, la vicenda ha messo in moto il meccanismo previsto dalla legge: trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri, che avrà 90 giorni per decidere se archiviare o chiedere l’autorizzazione a procedere.
Ma cosa resterà davvero di tutto questo? Forse non un processo, ma sicuramente un dibattito politico polarizzato. Il Tribunale dei ministri è chiamato a giudicare fatti specifici, ma nel frattempo l’opinione pubblica è già schierata.
Da un lato, chi vede in questa indagine l’ennesimo esempio di “toghe rosse” contro la destra; dall’altro, chi accusa Meloni di nascondersi dietro lo scudo ideologico per evitare il confronto con le sue responsabilità.
C'è però una lezione più profonda che emerge da questa storia: l’Italia ha urgente bisogno di ridefinire i confini tra politica e giustizia. Non si tratta di proteggere i potenti dalle inchieste, ma di evitare che ogni indagine diventi un campo di battaglia ideologico. Le riforme promesse da Meloni in campagna elettorale puntavano proprio a questo, ma ora che è la sua stessa credibilità a essere messa alla prova, il rischio è che il progetto si areni.
Se davvero la premier vuole lasciarsi alle spalle questa stagione di scontri, dovrà dimostrare che le sue riforme non sono semplicemente una reazione alle indagini personali, ma un progetto di lungo respiro per restituire equilibrio al sistema.
Altrimenti, anche questo caso finirà per alimentare quella narrazione del “politico perseguitato” che da decenni blocca ogni tentativo di cambiamento.
In fondo, in Italia il confine tra giustizia e politica non è mai stato netto. Ma è proprio questo a rendere ancora più urgente una svolta vera, capace di sottrarre le toghe al gioco politico e restituire ai cittadini la fiducia in entrambe le istituzioni.