Nel freddo della mattina, tra le mura di una cella del carcere di Cagliari-Uta, si è consumata una tragedia che getta una luce cruda sul dramma delle nostre prigioni. Un uomo di 49 anni, originario di Uras, ha scelto di porre fine alla propria esistenza, impiccandosi con quella che dovrebbe essere una casa di redenzione, ma che troppo spesso si trasforma in un cimitero di speranze.
La notizia, che ha l'amarezza di un verdetto senza appello, ci viene data da Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione Socialismo Diritti Riforme Odv, una donna che conosce bene l'eco dei passi nei corridoi delle carceri sarde. "Un inizio d'anno tragico", dichiara la Caligaris, con quella voce che ha imparato a non tremare davanti all'orrore, ma che oggi non può nascondere il dolore. "Il nostro carcere, che dovrebbe essere luogo di riscatto, è diventato invece un teatro di disperazione".
Nonostante il pronto intervento dei medici del 118, avvertiti dagli agenti penitenziari nel tentativo di strappare alla morte un uomo che aveva già mostrato segni di profonda sofferenza, non c'è stato nulla da fare. Un corpo che si è spento alle prime luci dell'alba, intorno alle 5, lasciando dietro di sé non solo il vuoto di una vita, ma un interrogativo pesante come il piombo: fino a quando continueremo a ignorare il grido silenzioso di chi è rinchiuso?
Questo suicidio, il primo del 2025 nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, è un memento mori per tutti noi, un richiamo a riflettere su quanto accade dietro le sbarre. "Il sovraffollamento, l'indifferenza, la mancanza di cure adeguate per chi soffre di disagi psichici - continua la Caligaris - sono le vere carceri dentro le carceri. Non possiamo più tacere, non possiamo più permettere che le nostre prigioni siano luoghi dove la salute mentale viene lasciata a se stessa, dove la disperazione trova il suo epilogo in un cappio".
La presidente dell'associazione Sdr chiama a gran voce interventi concreti, iniziative che vadano oltre la semplice amministrazione della giustizia, che si prendano cura di chi, in difficoltà, ha bisogno di essere rialzato piuttosto che schiacciato. "Se non agiamo, se non interveniamo con serietà e senso di umanità, temo che questo non sarà che il primo di molti atti tragici che vedremo consumarsi tra le nostre mura penitenziarie", conclude con un monito che suona come una preghiera per un cambiamento che non può più attendere.
E così, mentre il sole sorge su una Cagliari che non vuole dimenticare, ci troviamo a riflettere su quale società vogliamo essere, su quale giustizia vogliamo amministrare. Una giustizia che non sia solo punizione, ma anche redenzione, un'umanità che non dimentichi chi ha sbagliato ma che, invece, lo aiuti a ritrovare la strada.