Tornano a farsi sentire i pastori sardi, soprattutto nel Nuorese, Ogliastra, Goceano e Baronie. Tornano in strada, come sei anni fa. Ma non è più la stessa storia. Il prezzo del latte nel 2019 fu il punto di rottura, la miccia di una protesta clamorosa che finì su tutti i giornali, con il latte versato sulle strade, i trattori che arrivarono perfino a Sanremo, e una rabbia corale che seppe organizzarsi, trattare, spaventare. Oggi, invece, 200 auto sfilano lungo la 131 Dcn, senza trattori, senza simboli, senza una cabina di regia. La rabbia c’è, ma manca il progetto.
Il corteo di ieri sera è partito da due punti distinti, strade secondarie, – Ottana e Sologo – per confluire nella zona industriale di Pratosardo. Nessuna bandiera, nessuna sigla: sono allevatori “sciolti”, senza rappresentanza ufficiale, che denunciano ritardi nei pagamenti da parte della Regione e dell’organismo Argea. Secondo loro, i fondi ci sarebbero, ma non arrivano. «Non possono essere tutti bugiardi – dice Gianuario Falchi – tutte le aziende lamentano la stessa cosa. I soldi non arrivano, o lo fanno col contagocce».
È una protesta legittima, e nessuno può negare che il comparto sia in affanno. Ma una domanda s’impone: da quanto tempo non si vedeva un movimento così? E come mai oggi si torna in strada senza la forza compatta e simbolica dei trattori, che per tradizione rappresentano l’identità e il peso del mondo agricolo? Che fine ha fatto il coordinamento, la strategia, la visione politica?
Si ha l’impressione che, stavolta, la rabbia sia stata lasciata a se stessa. Spinta forse da motivazioni autentiche, ma incanalata senza una direzione chiara. La mobilitazione agricola dello scorso anno, che attraversò l’Europa e giunse fino a Sanremo con i trattori italiani in prima linea, mostrava una struttura e un linguaggio ben riconoscibili. Oggi, invece, si rischia l’episodicità: proteste a macchia di leopardo, senza seguito, senza vere interlocuzioni.
C'è poi una riflessione da fare sul contesto politico. In un momento di crisi di rappresentanza, certe manifestazioni finiscono col diventare sponda per chi cerca visibilità più che soluzioni. È un rischio concreto: il malessere vero – fatto di ritardi, burocrazia, fondi promessi e mai arrivati – rischia di diventare carburante per battaglie confuse, più emotive che strategiche.
Serve capire, non giudicare. Ma soprattutto serve struttura. Perché le proteste spontanee, se restano isolate, si esauriscono in fretta. E un comparto fragile come quello pastorale sardo non può permetterselo. L’alternativa è che ogni grido resti tale: forte, disperato, ma senza eco.