La vittoria lampo di Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967 è il punto di svolta che trasforma il modo in cui gli Stati Uniti guardano allo Stato ebraico. Non più un alleato incerto e difficile da sostenere, ma una potenza militare in ascesa, capace di umiliare tre Paesi arabi in meno di una settimana. L’impatto di questo trionfo è enorme: Washington intuisce che Israele può diventare un baluardo strategico nel Mediterraneo orientale, garantendo all’America un ruolo di primo piano in una regione ricca di risorse e perennemente in equilibrio precario. Di conseguenza, gli aiuti statunitensi crescono in maniera vertiginosa.
Tra il 1949 e il 1973 Washington aveva destinato a Israele circa 3,2 miliardi di dollari; nei due decenni successivi al 1974 ne elargirà quasi 75 miliardi, rimpinguando continuamente l’apparato militare israeliano. La Guerra dello Yom Kippur del 1973, scatenata da Siria ed Egitto nel tentativo di riconquistare i territori perduti nel ’67, consolida questo legame: gli Stati Uniti intervengono in aiuto di Israele, impedendo una pesante disfatta e dimostrando al mondo intero che l’alleanza è ormai fondata su un solido interesse reciproco.
Ma non è solo il campo militare a rinsaldare i rapporti. Da tempo gli Stati Uniti guardavano con sospetto all’economia israeliana di stampo socialista, basata su imprese pubbliche e kibbutz privi di proprietà privata. Negli anni ’70, una serie di shock esterni, a cominciare dal caro-petrolio e dagli sforzi bellici come l’invasione del Libano nel 1982, innescano un’inflazione spaventosa, che passa dal 13% del 1971 al 445% del 1984. È a questo punto che il governo americano di Ronald Reagan offre a Israele un accordo: gli Stati Uniti continueranno a fornire aiuti, purché l’alleato mediorientale abbracci riforme economiche neoliberiste. Israele accetta, e nel 1985 si giunge alla firma di un accordo di libero scambio, il primo del genere nella storia degli Stati Uniti. Senza più tariffe doganali, i flussi commerciali tra i due Paesi decollano: da meno di 5 miliardi di dollari nel 1985 superano gli 11 miliardi entro il 1995.
Questa apertura economica consente alle aziende americane di investire in Israele: colossi come IBM, Microsoft, Google e Apple aprono sedi di ricerca e sviluppo, contribuendo alla nascita della cosiddetta Silicon Wadi, una fucina d’innovazione che rende Israele leader nel settore high-tech. Questi sviluppi rafforzano l’idea di Israele come l’alleato perfetto: non solo un garante militare nella regione, ma anche un partner economico e tecnologico di prim’ordine.
Non che tutto fili liscio. L’irrisolta questione palestinese rimane un fardello pesante. Gli Stati Uniti, che mirano a esercitare influenza su tutto il Medio Oriente, avrebbero interesse a smorzare la tensione fra Israele e il mondo arabo, cercando una coesistenza tra lo Stato ebraico e uno Stato palestinese. Ma la diplomazia incontra mille ostacoli, e a volte Washington si mostra irritata: nel 1990 il segretario di Stato James Baker invita Israele a “chiamare” gli Stati Uniti quando sarà realmente interessato alla pace.
Tuttavia, nonostante questi contrasti, l’alleanza non s’indebolisce. Anzi, nuovi nemici all’orizzonte, come il fondamentalismo islamico, spingono Stati Uniti e Israele a rafforzare ulteriormente la collaborazione. Dopo gli attentati del 1993 al World Trade Center e, soprattutto, dopo l’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno sempre più bisogno di un alleato solido nella lotta contro il terrorismo. L’Arabia Saudita, sospettata d’aver chiuso entrambi gli occhi di fronte a certi estremisti, non sembra più tanto affidabile. Israele, invece, è ben deciso a proteggersi, sviluppando sistemi difensivi come l’Iron Dome con il sostegno americano. I rapporti commerciali e tecnologici, già stretti, si saldano ulteriormente. Il Congresso degli Stati Uniti, nel 2008, approva leggi volte a garantire che Israele possa prevalere su qualsiasi minaccia convenzionale. Il risultato è che gli aiuti militari aumentano, e con essi la potenza israeliana. Nel frattempo, l’interdipendenza economica cresce di pari passo, con Israele che diventa non solo un compratore di armamenti americani, ma anche un produttore di tecnologie che finiscono a rafforzare l’intero settore high-tech statunitense.
La fragile partita geopolitica non cessa di complicarsi: gli Stati Uniti, dopo la fine della Guerra Fredda, cercano di ridisegnare il Medio Oriente. L’obiettivo è arrivare a una distensione generale, facilitando intese tra Israele, Egitto, Giordania e, negli anni recenti, anche con alcuni Stati del Golfo e perfino con l’Arabia Saudita. Ma a sconvolgere questi piani giunge il 7 ottobre 2023, quando Hamas compie un attacco contro Israele.
La reazione israeliana è durissima: operazioni militari su vasta scala in diversi fronti, con un tributo di vite altissimo nella Striscia di Gaza. Gli Stati Uniti sostengono il diritto di Israele a difendersi, ma invitano a moderare le azioni per evitare una guerra regionale. Israele, tuttavia, non sempre ascolta i richiami americani, causando frizioni con la Casa Bianca di Joe Biden. Malgrado il malumore, la storica alleanza non crolla: i legami economici, tecnologici e militari sono troppo solidi, e gli Stati Uniti continuano a utilizzare il loro potere di veto all’ONU per proteggere Israele dalle risoluzioni critiche.
Vi sono segnali di un possibile cambiamento nei sentimenti dell’opinione pubblica americana, specie fra le giovani generazioni più sensibili al dramma palestinese, ma la ragion di Stato, almeno finora, ha sempre prevalso. Oltre settant’anni di storia hanno costruito un rapporto stratificato, fatto di convergenze ideologiche, equilibri commerciali, dipendenze militari e reciproci investimenti. Anche se la storia non è scritta una volta per tutte, l’alleanza fra Stati Uniti e Israele rimane uno dei pilastri della geopolitica contemporanea, un tassello fondamentale per capire tanto il passato quanto le prossime mosse nello scacchiere mediorientale.