Siamo arrivati al punto di fermare campionati, partite e intere giornate di sport per il maltempo o per episodi di razzismo. Sia chiaro, il maltempo è una scusa accettabile per molti: chi non avrebbe preferito starsene a casa al caldo piuttosto che correre su un campo fangoso sotto una pioggia battente? Certo, è sempre più semplice bloccare tutto piuttosto che educare alla resilienza, alla voglia di affrontare le difficoltà, che sono parte della vita come dello sport.
Meglio fermarsi, creando in alcuni un senso di frustrazione – per chi avrebbe voluto giocare – e in altri un’euforia quasi infantile, perché, diciamolo, non tutti amano scendere in campo con il maltempo.
Ma quando a bloccare tutto è il razzismo, la faccenda si fa molto più seria e degna di riflessione. Sabato scorso, in un piccolo campionato di Terza Categoria, la Gymnasium Sassari ha deciso di non scendere in campo per protesta contro un episodio avvenuto la settimana precedente, quando il loro attaccante gambiano, Ba, è stato bersaglio di cori razzisti durante una partita a Mamoiada. Un gruppo di spettatori, forse annoiati o semplicemente ignoranti, ha pensato bene di imitare il verso delle scimmie per “divertirsi” alle spalle di un giovane uomo che gioca a calcio per passione, dopo aver passato le sue giornate a lavorare come muratore.
La squadra avversaria e i dirigenti avevano difeso Ba, l’arbitro aveva sospeso la partita per sette minuti. Tutto sommato, un comportamento civile in risposta a una barbarie.
Eppure, il giudice sportivo ha sospeso la pena per la squadra di casa, lasciando che la faccenda scivolasse via come se fosse un dettaglio di poco conto. Questa leggerezza ha scatenato la protesta della Gymnasium, che, al posto di giocare contro l’Ossi, ha organizzato uno spuntino per dire “no al razzismo”.
Sia chiaro, il gesto è nobile. Il presidente della Gymnasium, Fabrizio Usai, ha persino minacciato di ritirare la squadra dal campionato se non arriveranno segnali concreti dagli organi sportivi. E non gli si può dare torto: davanti a episodi simili, servono prese di posizione chiare. Ma non posso fare a meno di pensare che lo sport dovrebbe essere il luogo in cui le differenze si annullano, non un ring dove si combattono battaglie che avrebbero bisogno di ben altri palcoscenici.
La verità è che abbiamo smesso di educare. Invece di insegnare fin da piccoli che il razzismo è una piaga sociale e che il rispetto per l’avversario è il fondamento dello sport, preferiamo aspettare che esploda il caso per indignarci e bloccare tutto. Non sarebbe più utile mettere in campo programmi educativi seri, lavorare sul lungo termine per sradicare certi comportamenti anziché limitarci a gesti simbolici, per quanto lodevoli?
La Gymnasium Sassari ha ragione a farsi sentire. Ma il problema non si risolve con uno spuntino o con la minaccia di ritirarsi dal campionato.
Serve un cambiamento culturale, e quello richiede tempo, fatica e coraggio. Perché, diciamolo chiaramente, fermarsi è sempre la scelta più facile. Ma ripartire, dopo aver affrontato e risolto il problema, è tutta un’altra storia.
Che faremo la prossima volta? Bloccheremo di nuovo tutto? Continueremo a tacere fino al prossimo scandalo? O finalmente inizieremo a educare davvero, con la forza di chi non ha paura di sporcarsi le mani per costruire una società più giusta, dentro e fuori dal campo?