Nella Repubblica del chiacchiericcio, dove la politica estera viene confusa con la cronaca rosa, ha fatto scalpore il reciproco apprezzamento tra Giorgia Meloni e Donald Trump. Un passaggio di cortesie superficiali, venduto come tappa cruciale da un ecosistema mediatico asfittico e leader-centrico, quando invece conta poco o nulla.
Il dibattito si arresta alla patina più visibile: qualche sorriso, strette di mano fatte apposta per i flash, mentre sotto la superficie, ben lontano dal bagliore dei riflettori, è lì che si giocano le partite autentiche. La politica vera, modellata da interessi consolidati, non si lascia impressionare dai selfie dei premier con leader d’Oltreoceano.
La postura statunitense non muta certo per due frasi di encomio. Trump, anche in una nuova eventuale veste presidenziale, non riscriverà l’agenda strategica di Washington sullo scacchiere europeo a seconda dei salamelecchi con Roma.
E l’Italia, con o senza Meloni, rimane ancorata ai suoi vincoli strutturali, prigioniera di cornici internazionali che ne riducono il margine di manovra a poche mosse marginali. Mentre la stampa pennella sorrisi e “stima reciproca” in copertina, sfugge completamente il cuore della questione.
È sulla NATO che Trump ha puntato i suoi riflettori: minacciando di portare gli Stati Uniti fuori dall’alleanza, il tycoon agita la struttura portante della supremazia americana in Europa. Non è la prima volta che sventola questa bandiera, già nel 2018 intimò scenari analoghi, salvo poi adeguarsi alla realtà. La minaccia va letta come un bluff strategico, un richiamo all’ordine rivolto agli alleati europei, troppo pigri nella spesa militare: non è un cambio di paradigma, ma un espediente per riscrivere l’agenda, spostando l’attenzione dall’Ucraina all’insufficiente contributo continentale alla difesa comune.
Dall’altra parte, in Italia, siamo ancora fermi al “pettegolezzo geopolitico da aperitivo”. L’intero orizzonte viene coperto dal gossip sulle relazioni personali, ignorando le sfide epocali: l’eterno scontro tra Washington e Pechino, la (in)tenuta dell’Unione Europea, l’instabilità mediterranea. A fronte di questi scossoni strutturali, la “conversazione privilegiata” tra Meloni e Trump si rivela per ciò che è: un’ininfluenza totale. I vincoli del sistema sono tali da relegare Roma al ruolo di spettatore non pagante, incastrato in un meccanismo altrui.
Eppure, in un Paese che predilige la narrazione di sorrisi e pacche sulle spalle, la vera sostanza – interessi strategici, rapporti di forza, scambi economici, investimenti militari – si perde nel nulla.
La guerra in Ucraina non si estingue con qualche stretta di mano, le tensioni tra Stati Uniti e Cina non si placano con l’entusiasmo di un leader italiano. La geometria della geopolitica non contempla emozioni passeggere, né lusinghe da copertina.
Così, mentre Trump adopera la minaccia di uscita dalla NATO come grimaldello per smuovere l’Europa, l’Italia si perde nelle sue illusioni da rotocalco. La storia, quella vera, resta altrove, scolpita dagli interessi concreti di potenze che decidono traiettorie di lungo periodo. E noi rimaniamo a guardare, beandoci di un’immagine riflessa in un panorama ormai inaccessibile.