Il futuro dell’Italia dopo il 2026: debito alle stelle, popolazione anziana e innovazione ferma sul binario morto

  Il secondo problema cruciale, dopo la droga edilizia, è quello del debito e degli interessi che esso comporta. Più lo Stato spende a deficit, più si indebita, più rischia di dover pagare tassi salati. E non c’è solo l’edilizia a pesare: la crisi del Covid prima, la guerra in Ucraina poi, hanno portato inflazione e rialzo dei tassi d’interesse. Quest’ultimo rende il debito più costoso proprio nel momento in cui l’Italia ha fatto più debito. Se non si mette un freno, rischiamo di trovarci in pochi anni a destinare una fetta enorme delle nostre entrate al pagamento degli interessi, sottraendo risorse a istruzione, sanità, investimenti futuri, insomma a tutto ciò che garantisce sviluppo e stabilità. 

  Nel 2022 già spendevamo circa il 4,4% del Pil solo per ripagare gli interessi sul debito, contro una media UE dell’1,7%. Secondo le previsioni, senza un cambio di rotta potremmo arrivare al 5% entro il 2030. Già oggi, oltre l’11,6% della spesa pubblica serve a pagare gli interessi, più di quanto si destina all’istruzione. Senza interventi, questa spirale rischia di trascinarci a fondo. La situazione appare tanto più cupa se la consideriamo in parallelo al terzo grande problema: l’invecchiamento della popolazione. Con una popolazione anziana, i costi per pensioni e sanità lievitano. Se mancano i giovani, il rapporto tra lavoratori e pensionati diventa insostenibile. L’Italia è tra i Paesi più vecchi del mondo, con un numero di nascite troppo basso per invertire la rotta in tempi brevi. Questo significa che la spesa pubblica dovrà coprire sempre più pensioni e cure mediche, proprio mentre una parte consistente delle entrate se ne va in interessi sul debito. Senza la spinta del settore edilizio, dopo il 2026 torneremo a fare i conti con questi problemi, aggravati dal passare del tempo. Prima del 2020, la crescita era quasi inesistente. 

  L’Italia aveva sofferto la crisi del 2008, quella dei debiti sovrani, e poi arrancato per oltre un decennio, con il Pil fermo al palo. Nel 2016-2017 era cresciuto un po’ più dell’1%, ma già nel 2018 la crescita era di nuovo sotto tale soglia. Politiche di austerity, alte tasse e pochi investimenti in innovazione ci avevano portato a una stagnazione cronica. I bonus edilizi e il PNRR ci hanno concesso una tregua, ma non una cura miracolosa. Se non faremo nulla, dopo il 2026 l’Italia rischia di ripiombare nel pantano: bassa crescita, alto debito, spesa per interessi in continuo aumento, anziani sempre più numerosi e pochi giovani in grado di sostenere il sistema. Questo scenario, però, non è inevitabile. Per evitare il collasso, occorre intervenire sui problemi strutturali, a partire dalla scarsa innovazione, dalla competitività limitata, dalla produttività troppo bassa. Senza investimenti in ricerca e sviluppo non si cresce davvero. L’Italia investe solo l’1,5% del Pil in R&S, contro il 3,1% della Germania e il 2,1% della Francia. Se non recuperiamo questo ritardo, resteremo schiacciati dalla concorrenza internazionale, incapaci di aumentare stipendi e occupazione qualificata. Meno innovazione significa meno capacità di produrre valore, stipendi bassi, fuga di cervelli e conti pubblici sempre più difficili da sostenere. Anche il mercato del lavoro soffre di questi problemi. Con salari bassi, meno posti qualificati e pochi investimenti, i giovani laureati faticano a trovare opportunità adeguate. Nel frattempo, la povertà assoluta ha raggiunto l’8,5% delle famiglie, e oltre il 10% dei lavoratori dipendenti non guadagna abbastanza per superare la soglia minima necessaria a vivere dignitosamente. 

  Il rischio è che, dopo il 2026, senza i bonus e gli stimoli temporanei, il paese ripiombi in una situazione di stagnazione economica, maggiore indebitamento e impoverimento generale. L’immigrazione potrebbe alleviare l’invecchiamento della popolazione, ma è difficile da gestire in modo ordinato e non incontra sempre il favore dell’opinione pubblica. Intanto il tempo passa, il 2026 si avvicina, e con esso la fine degli incentivi che hanno garantito l’attuale boccata d’ossigeno. Se non sfrutteremo questi anni per mettere in campo riforme serie e investimenti strategici, il declino non potrà che peggiorare. In definitiva, l’allarmismo non nasce dal nulla. La nostra economia gode oggi di un’illusione di forza, garantita da interventi eccezionali e debiti sempre più ingombranti. Senza un cambiamento di rotta, il 2026 potrebbe davvero segnare l’inizio di una lunga, dolorosa stagione di declino. Nulla è scritto nella pietra, ma il tempo per intervenire si accorcia. Ora sta ai governi, alle imprese e ai cittadini stessi decidere che futuro vogliono costruire per il Paese.

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