Ogni epoca manifesta il proprio carattere nella forma in cui l’essere si disvela e si ritrae. Tale è il punto nevralgico del nostro tempo: ci troviamo dinanzi a ciò che l’uomo, nel suo agire tecnico, costringe a mostrarsi come mera risorsa. Quando il presidente Biden, nel suo discorso d’addio, mette in guardia contro una pericolosa concentrazione di potere – una “oligarchia” che minaccia libertà e democrazia – egli, forse senza volerlo, indica un fenomeno che rivela la complessa essenza della tecnica.
Non è infatti sufficiente concepire la tecnica come somma di strumenti. La tecnica è un orizzonte di svelamento, un modo in cui il mondo ci si para innanzi, costringendoci a scorgere ogni ente – dal più umile elemento della natura sino all’uomo stesso – in veste di “fondo” da porre a disposizione, di mezzo per un fine. Ecco il pericolo: nell’apparato (Gestell) che la tecnica istituisce, l’uomo corre il rischio di essere ridotto egli stesso a semplice ingranaggio, oggetto di manipolazione.
Il monito di Biden, pur espresso in linguaggio politico, tocca inconsapevolmente il nucleo più profondo di questo disvelamento. Quando parla di oligarchia, non parla soltanto di un’accumulazione di ricchezze. Accenna, piuttosto, a un potere che si serve degli strumenti tecnologici per orientare le inclinazioni e i desideri, per ridefinire il vero e il falso nella coscienza collettiva. In ciò si riflette l’“oblio dell’essere” di cui la nostra epoca soffre: l’uomo cessa di interrogarsi su ciò che si cela oltre la manipolazione calcolante, e, così facendo, si espone al dominio di forze che paiono totalizzanti.
La pericolosità non si annida meramente in alcuni individui potenti – fossero un magnate o un gruppo d’interesse – bensì nell’assenza di stupore di fronte a tale processo. L’odierno “complesso tecnologico-industriale” è l’espressione di un orizzonte dove ogni cosa è predisposta per essere sfruttata, veicolata, monetizzata. Il gesto con cui la tecnica dispiega il suo potere non sta tanto nell’invenzione di marchingegni più o meno sofisticati, ma nell’avvolgere la coscienza in un moto in cui il “domandare” e il “meravigliarsi” sono soppressi.
Biden lancia un allarme su questa deriva. E tuttavia, da una prospettiva “heideggeriana”, si rileva che la semplice proclamazione politica di un pericolo non basta a sottrarre l’uomo all’assetto in cui la tecnica lo pone. Ciò perché la radice del problema non è risolvibile con qualche norma, con una riforma costituzionale o con un nuovo regolamento etico: la radice è nell’atteggiamento di fondo col quale ci rapportiamo all’essere, riducendo tutto a elemento quantificabile.
Heidegger ci ricorda però che nell’alveo della minaccia germina anche la possibilità della “svolta” (Kehre).
Là dove il pericolo è più intenso, ivi la salvezza può balenare. Forse Biden, parlando della necessità di “limitare il potere di pochi”, intravede, sebbene confusamente, l’esigenza di una diversa rivelazione dell’essere, che non sottoponga ogni ente a un controllo illimitato. Solo se l’uomo si riapre a ciò che non può essere semplicemente calcolato o dominato, potrà trovare un nuovo inizio, un dimorare autentico (Wohnen) nel mondo.
Questa strada, tuttavia, non si fonda nel solo cambiare leggi o rovesciare chi comanda: esige il superamento del pensiero che si accontenta di trasformare la tecnica in un oggetto di gestione. Che l’uomo reintroduca un interrogare più radicale, un domandare che faccia spazio all’enigmatico e al sacro, è forse la speranza ultima se si vuol sfuggire alla totale pianificazione che rende ogni “cosa” risorsa, persino l’essere umano.
Nel discorso di Biden scorgiamo, in filigrana, il segno che l’epoca sente di star vacillando sotto il proprio peso. Ma l’uscita da questo cul-de-sac non si ottiene con la sola denuncia di un’oligarchia: occorre disincantarsi dalla visione meramente strumentale e riaprire la via a un rapporto col mondo in cui l’essere non sia soffocato dall’uso. Soltanto così, svincolandoci da una tecnica che è divenuta il nostro orizzonte inevitabile, potremo ritrovare la “pienezza” del nostro esser-ci e preservare il nucleo più profondo e fragile della libertà.