Per la generazione che non ha vissuto le sue imprese in un campo da calcio e la sua speciale storia personale, raccontare di Gigi Riva, scomparso all’età di 79 anni poco più di tre mesi fa, richiede una premessa. Bisogna partire da un concetto. Quello della virtù, qualità così rara e così preziosa. La virtù non suscita invidia, solo ammirazione. Gigi Riva nato Luigi, anzi Gigirrriva come lo chiamavano i tifosi del Cagliari, è stato prima di ogni altra cosa un uomo di virtù.
È stato un fuoriclasse assoluto. Il grande giornalista Gianni Brera aveva coniato per lui un bellissimo soprannome, Rombo di Tuono, proprio per la potenza del tiro. Riva è stato uno dei pochi, assieme a Gianni Rivera, Roberto Baggio, Francesco Totti, ad entrare nell’élite dei campioni eterni che hanno dato lustro al gioco del calcio italiano. È stato, soprattutto, un uomo che senza volerlo è diventato modello, un esempio di etica e virtù lungo tutto il corso della sua carriera, che si è snodata lungo il decennio che dagli anni 60 ha scavallato nei 70. È diventato il simbolo della Sardegna, creando un legame indissolubile con il suo popolo che l’ha amato di un amore totalizzante. Certamente per le sue gesta sportive, ma non solo. Per rimanere a Cagliari, per non venire meno alla parola data, Riva rifiutò la cessione ai grandi club del Nord, primi fra tutti la Juventus e l’Inter, che in più periodi solleticarono l’ambizione con ingaggi favolosi e la promessa di vincere scudetti in catena di montaggio.
Ma il suo scudetto, Gigi Riva, l’ha vinto ugualmente, a Cagliari, nel campionato 1969-70. Uno scudetto che nella memoria collettiva ha assunto i contorni di una favola. L’impresa di una squadra di provincia, all’insegna di una piccola grande rivoluzione che all’epoca cambiò il calcio italiano. Lo ha raccontato bene Riccardo Milani nel suo documentario “Nel nostro cielo un rombo di tuono”, che ha segnato l’ultima uscita pubblica di Gigi Riva. Già nella sua condizione di emigrante al contrario, dal Nord al Sud, da Leggiuno a Cagliari, c’è la cifra di un uomo che, per dirla alla De Andrè,ha sempre viaggiato in direzione ostinata e contraria. Non ha avuto una vita facile. Perse il padre a nove anni, la madre quando ne aveva sedici. Poco più che ragazzo, accettò malvolentieri il trasferimento a Cagliari: pensò che nell’isola sarebbe rimasto una sola stagione. In verità non è più andato via. Oggi si può dire che Riva ha abbattuto i muri del tifo, è stato di tutti. È stato soprattutto un idolo in maglia azzurra, basti pensare che ancora oggi detiene il record (35) delle reti segnate in Nazionale, di cui, anni dopo, è stato team manager. Riva è tra i cavalieri che sfiorarono l’impresa al Mondiale messicano del 1970 quando, dopo l’epica semifinale Italia-Germania 4-3, gli azzurri si arresero al Brasile più forte di tutti i tempi, quello di Pelé. Due anni prima - proprio grazie ad un suo gol nella finale contro la Jugoslavia a Roma - l’Italia aveva vinto il suo primo titolo Europeo.
Riva alla patria - se così si può dire - ha consegnato ginocchia e menischi, perché sono stati due infortuni in Nazionale (il primo nel 1967 e l’altro nel 1970) a minarne il fisico, fino a costringerlo al ritiro precoce, a soli 31 anni e tre mesi. La contabilità della sua carriera è un inno al gol: dei 35 gol in nazionale si è detto (su 42 partite: recordman azzurro) a questi ne vanno aggiunti 156 in serie A, 10 nelle varie coppe europee disputate dal Cagliari, 33 in Coppa Italia, 8 in B. Riva ha vinto per tre volte capocannoniere della serie A (1967, 1969 e 1970), in anni in cui la concorrenza era agguerritissima. Ma nel contorno del fuoriclasse, batteva il cuore di un uomo vero, silenzioso e ombroso, serio come un capo indiano, un “Hombre vertical” che ha saputo diventare un simbolo. Per questo Gigi Riva è stato uno dei campioni italiani più amati di tutti i tempi.