Quando si parla di Israele e Palestina, si tocca una delle questioni più divisive della nostra epoca, un nodo di politica, religione, storia, e ideologie che riemerge con forza in ogni parte del mondo, persino in un’aula universitaria. Questo è ciò che è accaduto a Cagliari, dove un docente israeliano del Technion Institute di Haifa, Alex Bronstein, è stato oggetto di contestazione durante una sua lezione, con un gruppo di venti manifestanti pro-Palestina che si sono radunati davanti al Palazzo delle Scienze.
Un sit-in che riflette l’elevata tensione e la polarizzazione su una questione che, per la sua portata storica, continua a suscitare risposte viscerali in tutto il mondo.
Il conflitto israelo-palestinese affonda le radici in una lunga storia di esili, occupazioni e divisioni territoriali che ha segnato l’intero Novecento e oltre. L’attacco del 7 ottobre scorso da parte di Hamas su Israele ha drammaticamente riacceso i riflettori su una questione tutt’altro che risolta, evidenziando le tensioni che dividono non solo i popoli direttamente coinvolti, ma anche comunità e istituzioni internazionali.
La vita dei palestinesi è costellata da difficoltà quotidiane, restrizioni e insicurezza; allo stesso tempo, anche gli israeliani convivono con un sentimento di vulnerabilità e il costante bisogno di protezione. Una realtà complessa, che rischia di trasformarsi in una disputa binaria che non lascia spazio alla comprensione né al dialogo.
La manifestazione davanti al Palazzo delle Scienze ha voluto contestare la presenza di Bronstein e del Technion Institute di Haifa, istituzione accusata dai manifestanti di collaborare con il settore militare israeliano. La richiesta è stata chiara: gli studenti di UniCa per la Palestina hanno invitato l’Università di Cagliari a boicottare ogni relazione con le università israeliane, definite “sioniste” in un appello che suona come un invito alla divisione anziché all’inclusione.
È questo il punto cruciale: trasformare un docente e il suo lavoro accademico in bersagli per una rivendicazione politica rischia di semplificare in modo eccessivo una questione delicata e complessa.
Sorge dunque una domanda: che colpa ha un professore di essere israeliano? Come giustificare un’azione che, pur avvolta nelle vesti di una protesta per i diritti dei palestinesi, si traduce nella stigmatizzazione di una persona in base alla sua nazionalità? Situazioni come questa fanno sorgere legittimi interrogativi sulle modalità e i limiti della contestazione, soprattutto quando si trasforma in una forma di pregiudizio.
Non si tratta di negare le difficoltà che il popolo palestinese vive quotidianamente, né di sminuire la loro richiesta di giustizia. Ma l’approccio adottato dai manifestanti a Cagliari sembra puntare a un’idea di conflitto in cui si cerca di cancellare la presenza dell’altro piuttosto che di riconoscerlo e tentare di capirlo. Questo genere di manifestazioni, prive di dialogo, rischiano di creare una forma di “boicottaggio culturale” che più che sostenere una causa legittima, sembra orientarsi verso un atteggiamento di esclusione che riecheggia modalità estranee al principio accademico della libertà di insegnamento e apprendimento.
In questo contesto, è fondamentale ricordare il ruolo delle università come spazi di confronto aperto e libero, dove si dovrebbe cercare di costruire ponti tra le differenze piuttosto che distruggerli. Cagliari, e con essa ogni sede accademica, dovrebbe aspirare a essere un luogo di costruzione e non di distruzione, dove il dibattito, anche acceso, non si tramuta in esclusione.