Da settant’anni, la Sardegna ospita basi militari e poligoni che ne scandiscono la vita silenziosa, mentre nel sottosuolo riecheggiano le esplosioni delle esercitazioni. La penisola di Capo Teulada, Capo Frasca, Salto di Quirra: nomi che, per i sardi, non indicano solo località geografiche, ma ferite aperte. L’isola non è solo un punto strategico del Mediterraneo: è il simbolo di come l’Italia sia rimasta per decenni impigliata in una subordinazione geopolitica che ha compromesso non solo il suo territorio, ma la sua capacità di decidere autonomamente il proprio futuro.
Le esercitazioni militari iniziarono negli anni ’50, in piena Guerra Fredda, quando il controllo del Mediterraneo era cruciale per il contenimento dell’Unione Sovietica. Da allora, la Sardegna non è più uscita da quella logica, e ogni richiesta di smantellamento o ridimensionamento dei poligoni si è scontrata con il muro della necessità strategica, dettata non da Roma, ma dagli alleati occidentali. Questo stesso contesto spiega il perché del silenzio che ha circondato l’attività militare per decenni. La popolazione locale, privata di vere alternative economiche, ha spesso subìto senza sollevare grandi opposizioni. Ma qualcosa è cambiato.
Nel 2023, il movimento antimilitarista A Foras ha intrapreso una battaglia legale contro le esercitazioni, ispirandosi al modello pugliese, dove le associazioni ambientaliste hanno ottenuto lo stop delle attività militari in aree protette senza valutazioni di incidenza ambientale (Vinca). Con il supporto del Gruppo di Intervento Giuridico e di un team di avvocati, A Foras ha presentato due ricorsi al Tar, chiedendo la sospensione delle esercitazioni. Una novità è emersa proprio nel 2024, quando, per la prima volta in 70 anni, l’Esercito ha presentato la documentazione per ottenere la Vinca per il poligono di Teulada. Ma è davvero un cambio di rotta o solo un tentativo di mascherare la continuità?
La storia recente della presunta bonifica di Capo Teulada non lascia molte speranze. Nonostante le osservazioni delle associazioni ambientaliste, gli uffici regionali hanno dato il via libera senza considerare le criticità sollevate. Lo stesso potrebbe accadere ora, con la procedura della Vinca: formalità rispettate, ma senza un’effettiva tutela del territorio. Non si tratta solo di una questione ambientale, ma di un’intera struttura amministrativa e politica che, invece di difendere gli interessi locali, ha per anni legittimato la presenza militare senza discutere.
Ma la questione delle basi militari sarde va oltre il tema locale. È il riflesso di una politica estera italiana che, fin dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha scelto il compromesso piuttosto che l’autonomia. La Sardegna rappresenta la manifestazione più evidente di questa sudditanza. Le basi non sono solo il frutto di decisioni italiane: sono la conseguenza diretta degli accordi tra Roma e Washington, dove spesso l’Italia non ha fatto altro che accettare ciò che le veniva imposto. L’isola, per gli Stati Uniti e la NATO, non è solo un avamposto logistico, ma un pezzo fondamentale della strategia mediterranea. Oggi, con l’escalation delle tensioni tra Occidente e Russia e la presenza crescente della Cina, la Sardegna è destinata a rimanere centrale nelle esercitazioni.
Il tentativo di A Foras di fermare questo processo non è solo un atto di difesa ambientale: è un tentativo di interrompere un meccanismo più grande. Ma la sfida è immensa. Ogni ricorso legale può rallentare le operazioni, ma non potrà risolvere il problema principale: la mancanza di una politica nazionale capace di sottrarre l’Italia al ruolo di cliente degli Stati Uniti.
Finché questa logica non verrà spezzata, la Sardegna continuerà a subire. Le sue terre saranno teatro di esplosioni, il suo ambiente compromesso, e i suoi abitanti pedine di una strategia che non hanno mai scelto. I poligoni non sono solo aree di esercitazione, ma il rumore assordante di una subordinazione che pesa sull’intera nazione.