Alghero: Es arribara la palla marina - Un racconto di Tonio Mura Ogno

  Oggi è considerata una sciagura, e mareggiata dopo mareggiata si teme sempre il peggio. I balneari non ne possono la pazienza, più ne puliscono e più ne ritorna. Gli ambientalisti gridano al disastro, non perché la palla marina si depositi abbondante lungo le spiagge, ma perché le onde la strappano dai fondali. Sciagura su sciagura. 

  Pobre Alguer, manco lo nom tou es honorat! Tutt’altra cosa al temps que la palla marina arribava al solaio. Es arribada la palla marina! Es arribada la palla marina! Lo gridava mentre di corsa attraversava placetes e carrerors, quasi fosse Lacana. Il bando era accolto come una festa, soprattutto dai minyons, que llestros dabaixavan al solaio, per rincorrersi come in un grande materasso, che se cadevi ti rialzavi senza un graffio, que de xotxorombel-les era a qui na feva de mes ensieme, un vociare festoso che celebrava una trasformazione che madre natura, ne sono convinto, voleva regalare esattamente a noi ragazzini, lo gioc dels minyons del carrer, un parco giochi ante litteram. La palla marina era così tanta che invadeva l’intera spiaggetta, e così spessa da coprire los caixons e per buona parte anche los caixonets. Certo, sarebbe stato opportuno distinguere: giocarci quando ancora era bagnata comportava delle conseguenze, soprattutto al rientro en casa, que la mamma ma seguiva a catòra si tornava amb les botes banyadas. 

  Molto diverso quando il sole ne asciugava la superficie e te trobaves la palla marina fins a drinte de la mudanda, que la catòra t’arribava miteix coma un ratzo! A parte questi piccoli disguidi, e dopo esserci stancati, ma stancati, si passava ad altre strategie. Il pezzo classico era la trappola, che consisteva nello scavare un fossato nel banquet di posidonia, magari in una zona di passaggio. Le mareggiate, oltre alla palla marina, depositavano anche una certa quantità di canne, utili alleate per coprire il fossato. Si formava una specie di reticolo, poi coperto di palla marina asciutta, una vero tappo ben mimetizzato. Se la disponibilità di canne lo permetteva, di fossati se ne realizzavano anche due o tre, una specie di campo minato. Spero abbiate capito: il fossato era una trappola, perché il tappo crollava al minimo peso e si precipitava giù, goffi e umiliati. Più il fossato era al bordo del banquet e più c’era il rischio di finire in una pozza d’acqua, perché il mare, filtrando dalle foglie, riempiva il fondo della trappola.

  Finita l’opera ci si allontanava, per postarci sui bastioni come les lloques marines. Da questo momento in poi poteva capitare di tutto, compreso che lo pare di qualcuno degli artefici del piano scendesse al solaio per andare a pescare a la punta del mol, attraversando lo banquet de palla marina. Si stava col fiato sospeso, sperando che il tipo non calpestasse la mina, perdò il tappo. Tu lo speri che vada così e nel mentre l’uomo avanza. Ne studi la direzione, intuisci, vorresti intervenire per fermarlo, guardi il figlio con fare interrogativo ma quello è come pietrificato. Cosa catzu fem? E mentre bisbigli queste tre magiche parole da sotto si alza un urlo: a la bagassa de ta mare! Il più coraggioso fa occhiolino e vede l’uomo ricurvo dentro il fossato, guarda caso proprio quello allagato. E di nuovo: a la bagassa de ta mare! Tutti ci voltiamo verso il figlio: està parlant de ta mare? Alhora t’ha vist! I com ha fet a ma veura? E la mamma no és bagassa! Ma aquel és lo pare tou….Poco ci mancava che dallo sfottò si passasse alle mani, che anche quello era un diversivo! Quando il maestrale ripuliva il solaio, la palla marina si depositava nel fondale, pronta ad essere riversata sulla platjetta nella successiva libecciata. A riva rimanevano piccoli cumuli riscaldati dal sole e bagnati dalla risacca. Uno direbbe: tutto finito! E invece no: era il turno dei ricercatori de tramaritja, l’esca per eccellenza, oggi sostituita dai più volgari bigattini. Un verme marino che poteva raggiungere dimensioni notevoli, 10 anche 15 cm, una specie di mille piedi che si arrotolava come un serpentello, che apprezzava la calura e l’umidità dei piccoli banchi di palla marina. Bastava rivoltare le foglie e se eri fortunato ne trovavi decine e decine. Ovviamente c’erano anche quelli del mestiere, che la trsamaritja la vendevano alla porta del Mercato civico, viva. Il contenitore era un bolic di una certa dimensione, aperto a metà e svuotato in parte. Veniva inumidito con acqua di mare e all’interno della prima metà, come se fosse un niu, si depositavano un certo numero de tramaritjas.

  Queste si avvinghiavano l’una all’altra com les coloras de rio appena nadas. Con l’altra metà de lo bolic si copriva il nido e in questo modo la tramaritja sopravviveva anche due o tre giorni. Stiamo parlando de la tramaritja de terra, che si cercava anche scavando nel pietrisco umido a lato degli scogli o semplicemente rivoltando piccoli massi che stavano sul bagnasciuga. Scavando si poteva incontrare anche un altro tipo di esca: lo cuc negra, ricercato dai pescatori più esperti. L’altro tipo di tramaritja è quella de escoll, e si nasconde nel manto fitto di alghe quasi vellutate che si radicano sugli scogli nelle parti più superficiali, bagnate costantemente dal mare. La raccolta doveva avvenire rigorosamente durante la secca, quando il mare si ritirava e il manto di alghe era facilmente raggiungibile. La tecnica era da disgraziati inquinatori, perché si usavano le pietre di solfato di rame, fate sciogliere lentamente dentro una bottiglia riempita d’acqua di mare. Il liquido intossicante veniva poi versato sul manto di alghe e centinaia di tramaritjas uscivano allo scoperto, per essere catturate con estrema facilità. In questo caso, anche perché decisamente più piccole di quelle di terra, era quasi impossibile poterle conservare vive ma io ci riuscivo. Dopo averle catturate le lavavo più volte con acqua di mare, che era pur sempre l’acqua de la fogna ma non tossica come quella del solfato. Poi riempivo un barattolo di un’alga particolare nota come col marina, di un bel colore verde vivo, e ovviamente la andavo a raccogliere lontano dai luoghi trattati. Come per miracolo la tramaritja si ravvivava e poteva sopravvivere anche sino al giorno dopo. Il mio compito, specialmente nelle giornate estive, consisteva nel portare a casa un certo quantitativo de tramaritjas. Mio babbo le prendeva quando rientrava dal lavoro, perché usava riposarsi al mare, pescando da los caixonets. Il pesce, al solaio, non mancava mai, e tanto meno a casa mia e nelle case di tante altre famiglie dell’Alguer Vella. Magari non era pesce di alta qualità però riempiva la pancia di bambini e adulti. 

  (Le illustrazioni sono di Luciana Briganti Rosnati. La revisione delle espressioni in algherese di Michele Scala)

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