Il dribbling di Dio: Garrincha, la poesia in fuga

  C’era una volta un uomo con la gamba più corta dell’altra, un corpo sbilenco che pareva sfidare le leggi della fisica, eppure danzava. E danzando, umiliava. Non era Pelé, non era un condottiero, non era nemmeno un artista consapevole del proprio genio: Garrincha era il calcio nella sua essenza più primordiale e istintiva, la quintessenza del dribbling. Per lui, superare l’uomo non era un mezzo, ma un fine. Durante un’amichevole in Italia, in preparazione ai Mondiali, il Brasile affrontò la Fiorentina. Quel giorno, Mané dribblò nell’ordine Robotti, Magnini, Cervato e infine il portiere Sarti. Poteva segnare, avrebbe dovuto farlo, ma aspettò. Aspettò il ritorno di Robotti, lo saltò di nuovo con la grazia beffarda di un bambino in cortile e solo allora decise che il gol era cosa fatta. Il calcio, per Garrincha, non era tattica, non era disciplina: era il piacere del gioco, un’ossessione che non prevedeva compromessi. La Federazione Brasiliana lo giudicava un folle. Troppi dribbling, troppa anarchia. In un mondo in cui la razionalità tattica dettava legge, Garrincha era l’incubo di ogni teorico. Moreira, allenatore del Botafogo, tentò di educarlo, di piegarlo a un calcio più utile. Missione fallita. L’utilità era un concetto estraneo a Garrincha, che ha cancellato a suon di finte e controfinte ogni postulato scientifico sul calcio ordinato. C’erano dottori e tecnici che studiavano le sue gambe storte, cercavano spiegazioni biomeccaniche per la sua capacità di saltare l’uomo come nessuno prima né dopo. 

  Ma Garrincha non si studiava, Garrincha si guardava. Chi ha avuto la fortuna di osservarlo dal vivo sa di cosa parlo: una scossa elettrica, un ubriaco lucido che mandava al bar chiunque provasse a sbarrargli la strada. E dire che la Seleção lo mise in panchina. Troppo estroso, dicevano. Troppe licenze poetiche. Poi venne il 1958 e, quando finalmente lo lasciarono libero di ballare, la Coppa del Mondo diventò brasiliana. Anche Pelé, il Re, sapeva di dover inchinarsi a Mané quando la palla rotolava tra i piedi sbagliati e divini di quell’essere disegnato per sfuggire alle regole. Garrincha era il calcio nella sua forma più pura e selvaggia. Non era un ragionatore, non era un allenatore in campo. Era la poesia in fuga, il lampo imprevedibile che lasciava il difensore a fissare il vuoto. Se il calcio fosse stato solo una questione di logica, non avrebbe mai trovato posto. Ma il calcio, come la vita, è fatto di miracoli. E Garrincha era il più grande di tutti.

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