Il 15 febbraio, mentre il calendario contemporaneo si affanna a trovare significati nelle convenzioni commerciali, l’antica Roma celebrava i Lupercalia, una delle festività più arcaiche e profonde della sua tradizione. Un rito di purificazione e rigenerazione, ma anche un legame con le origini mitiche della città, con il lupo, con il sangue, con l'ordine e il caos. Un rituale che non apparteneva solo al tempo, ma al tempo sacro, quello che segna la transizione tra il decadimento dell’inverno e il rinnovarsi della vita. E qui sorge una domanda fondamentale: perché proprio il 15 febbraio? Perché le Idi di ogni mese occupano una posizione fissa, mentre il nostro calendario scorre senza riferimenti simbolici?
I Lupercalia, il cui nome deriva dal latino lupus – il lupo, ma forse anche dalla radice indoeuropea leuk- (“luminoso”) – segnavano un confine tra l’oscurità e la rinascita.
Celebrati nel Lupercale, la grotta sul Palatino dove, secondo la leggenda, la lupa aveva allattato Romolo e Remo, questi riti erano officiati dai Luperci, sacerdoti divisi in due gruppi, i Quintilii e i Fabii, discendenti di antiche gentes patrizie. Il loro compito era quello di sacrificare capre e un cane – simboli di forza vitale e protezione –, aspergere con il sangue due giovani iniziati e poi correre seminudi per le vie della città percuotendo le donne con strisce di pelle animale, le februa, per garantirne la fertilità.
Ma i Lupercalia non erano solo un rito di fecondità: erano la manifestazione di un concetto più profondo e strutturale della cultura romana. L’uomo primitivo, che abita ancora la natura selvaggia, viene purificato per diventare civis, membro della civiltà. Roma, prima di essere il centro del mondo, deve nascere dal sangue, dal sacrificio, dalla lotta tra istinto e razionalità. Lo stesso Romolo, il fondatore, non poteva creare una città senza prima versare il sangue del fratello Remo. La città, prima ancora che una costruzione, è un sacrificio, un passaggio necessario attraverso la violenza rituale e la purificazione.
La cerimonia officiata dai Luperci era una rappresentazione perfetta di questa tensione tra la brutalità primordiale e il bisogno di ordine.
Come riferisce Plutarco, “venivano iniziati due nuovi Luperci (uno per i Fabiani e uno per i Quinziali) nella grotta del Lupercale; dopo il sacrificio di capre (si ignora se una o più di una, se di genere maschile o femminile: secondo Quilici un capro) e, pare, di un cane (che per Dumézil è cosa normale se i Luperci sono “quelli che cacciano i lupi”), i due nuovi adepti venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre appena uccise”. Il sangue veniva poi asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra e, come atto di rinascita, i due giovani sacerdoti ridevano. Un riso liberatorio, simbolo del superamento della morte rituale e della purificazione che li trasformava in ministri del sacro.
Ma il rito non finiva qui. Dopo aver consumato un abbondante banchetto, i Luperci si spogliavano, indossavano pelli di capra e tagliavano strisce di cuoio con cui correvano per le strade della città. Queste fruste, chiamate februa o amiculum Iunonis, venivano utilizzate per colpire simbolicamente le donne che si offrivano spontaneamente, porgendo le mani o il ventre, per garantirsi fertilità e protezione divina. Parallelamente a questa cerimonia, però, avvenivano altri riti, ancora più sfrenati: le matrone romane, in gruppo, si sottoponevano a frustate e si lasciavano soggiogare dai giovani devoti a Fauno Luperco, abbandonandosi a desideri carnali come forma di consacrazione alla divinità.
Questa componente orgiastica, del tutto naturale nella religiosità romana, divenne uno dei principali bersagli del Cristianesimo. La Chiesa, inorridita dalla carica sessuale del rituale, condannò con forza i Lupercalia, vedendoli come un retaggio del paganesimo che doveva essere estirpato. Nel 496 d.C., papa Gelasio I tentò di porre fine definitivamente alla pratica istituendo la festa di San Valentino il 14 febbraio, appena un giorno prima dei Lupercalia, sostituendo il culto della fertilità con l’esaltazione dell’amore monogamico e casto.
Ma l’imposizione cristiana non cancellò del tutto il retaggio pagano: il legame tra il 14 e il 15 febbraio rimase, e l’idea stessa di una festa dell’amore è probabilmente un’eco lontana di quei riti che celebravano l’unione tra uomo e natura, tra carne e sacro, tra desiderio e vita.
Ma perché tutto questo si svolgeva nelle Idi di febbraio? Per rispondere dobbiamo tornare alle fondamenta del calendario romano. Le Idi (idus in latino) erano il giorno centrale del mese, il punto in cui il tempo cambiava direzione. Il termine potrebbe derivare dall’etrusco iduare, “dividere”, oppure dal latino arcaico iduo, “gonfiarsi”, riferito alla pienezza lunare. Nei mesi lunghi (marzo, maggio, luglio, ottobre) cadevano il 15, mentre negli altri il 13. Per i Romani, il tempo non era una sequenza indistinta di giorni numerati, ma una struttura di momenti qualitativamente diversi: le Calende (il primo giorno del mese, legato alla luna nuova), le None (la fase crescente della luna) e le Idi, quando il ciclo lunare raggiungeva la sua pienezza e preparava il declino.
Le Idi di febbraio, dunque, non erano un giorno qualsiasi, ma il punto culminante di un mese che i Romani dedicavano alla purificazione: februarius, infatti, prende il nome da februare, che significa “purificare”.
In questo mese si svolgevano i Februalia, riti per espiare le impurità della città e dei suoi abitanti, culminando nei Lupercalia, dove la violenza sacra si trasformava in fertilità e rigenerazione.
Oggi, il nostro tempo è diventato piatto, uniforme, privo di momenti di cesura. Abbiamo sostituito i riti con il consumo, il sacro con il marketing, il significato con l’intrattenimento. Se i Lupercalia segnavano il passaggio dal caos all’ordine, dalla sterilità alla fecondità, dalla morte alla rinascita, oggi il nostro febbraio è un mese qualsiasi, scandito solo da promozioni commerciali e appuntamenti privi di spessore simbolico. Abbiamo smarrito la sacralità del tempo e, con essa, la consapevolezza che la vita ha bisogno di passaggi rituali, di purificazione, di rigenerazione.
I Romani lo sapevano bene: senza un sacrificio, non c’è rinascita. E noi, oggi, da cosa dovremmo purificarci?