L'appalto e il palazzo. Genealogia di una parola pubblica di Pasqualino Trubia

Certe parole ci sfiorano ogni giorno, ripetute nei bollettini della politica o nella grammatica quotidiana della burocrazia, senza che nessuno le interroghi davvero. “Appalto”, ad esempio, è una di quelle. Si legge ovunque: nei titoli di giornale, nei comunicati dei comuni, nelle relazioni ministeriali. 

Ma cos’è, davvero, un appalto? E da dove viene, linguisticamente e culturalmente, questa parola che sembra neutra ma custodisce — come spesso accade nella lingua del diritto — una storia di potere, di gerarchia, di delega? Per rispondere, è necessario liberare il termine dalla retorica tecnica che lo appiattisce e osservarne la struttura come si fa con un’antica architettura. Perché ogni parola, come ogni edificio, ha fondamenta, travi portanti e decorazioni. E l’appalto, in questo senso, è un palazzo nella lingua. Contrariamente a quanto spesso si legge in spiegazioni giuridiche superficiali, appalto non deriva da pactum (patto) né da apprehendere (afferrare). Quelle sono somiglianze seduttive, ma infondate. 

L’etimo autentico e filologicamente attestato affonda le radici nel latino medievale, e precisamente nella locuzione ad palatium — “verso il palazzo”. Dove il palatium, beninteso, non è una dimora aristocratica, ma la sede del potere pubblico: il luogo in cui si amministrava la cosa pubblica, si stipulavano contratti, si emanavano concessioni, si gestiva il fisco. L’appalto, in origine, è dunque un incarico ricevuto dal potere, una forma di investitura contrattuale concessa da un’autorità centrale. 

Appaltare significava presentarsi al palazzo per ottenere una funzione — per esempio, la riscossione delle imposte, la costruzione di un ponte, la gestione di un dazio. Nei documenti notarili trecenteschi italiani, il verbo appaltare è già usato per indicare questo affidamento ufficiale, e il sostantivo appalto emerge in parallelo, sempre legato a contesti pubblici e formalizzati. Non sorprende, allora, che il termine si sia cristallizzato proprio nel campo giuridico-amministrativo, dove il rapporto tra autorità e soggetto incaricato non è mai paritario: l’appalto è una delega unilaterale, onerosa e delimitata, un contratto che vincola, ma che nasce da un atto di concessione, non da un patto tra uguali. L'appaltatore, nella sua accezione storica, è dunque colui che riceve l’appalto, e che si impegna a compiere un’opera o a fornire un servizio, secondo condizioni prefissate. 

È una figura antica, ambivalente. Nell’ancien régime, ad esempio, gli appaltatori delle imposte — i fermiers généraux in Francia, i gabellieri in Italia — erano tra i personaggi più ricchi e odiati del sistema fiscale. Non erano solo esecutori: erano imprenditori del fisco, spesso arricchiti e vicini al potere, ma anche esposti al disprezzo popolare. Con l’avvento dello Stato moderno e del diritto amministrativo codificato, l’appaltatore cambia pelle: non è più funzionario esterno, ma imprenditore privato che agisce secondo regole pubbliche, vincolato da capitolati, controlli, penali. Ma l’essenza rimane: riceve un mandato, non lo negozia da pari a pari. Più recente — ma non meno interessante — è il concetto di subappalto, che designa l’affidamento a terzi da parte dell’appaltatore stesso. Qui la catena si allunga: chi ha ricevuto potere lo delega a sua volta. Ma questa delega è, per così dire, derivata, fragile, soggetta a limiti e autorizzazioni. Il subappalto è una delega obliqua, sorvegliata, sempre potenzialmente revocabile, perché più ci si allontana dalla fonte dell’autorità, più si perde forza giuridica. Sul piano linguistico, la famiglia di appalto si dispiega con coerenza: appaltare (verbo attivo), appaltatore (chi riceve), subappaltatore (chi riceve da chi ha ricevuto), appaltabilità (l’idoneità di un’opera a essere affidata), stazione appaltante (l’ente che conferisce l’incarico). Ogni termine ha un senso funzionale, ma anche una precisa collocazione nel sistema dei poteri. 

Tutto ciò ci riporta a una constatazione più ampia: il linguaggio giuridico non è mai neutro. È la forma linguistica del potere. E il termine appalto, in particolare, è un esempio perfetto di come il potere pubblico si sia travasato nel diritto per mezzo della lingua, passando dal palazzo al codice, dalla sovranità all’amministrazione, senza mai dissolversi del tutto. Chi lavora davvero con gli appalti — tra computi metrici, avvisi, bandi, lotti, offerte tecniche, piattaforme telematiche e ricorsi — sa che il termine può apparire rigido, persino glaciale. Ma è proprio in questa freddezza formale che si cela il suo significato più profondo: un contenitore giuridico concepito per incanalare l’autorità entro margini controllabili, verificabili, opponibili. Appalto è una parola che non emoziona, ma governa. Non riscalda, ma regge. Come certe pietre che non si notano, eppure sono fondamenta.

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