Era un altro mondo, quello della Sardegna negli anni 60'. Un’isola sospesa tra mare e montagna, dove il vento portava con sé l'odore del mirto e del mare, e le strade erano polverose, battute dai passi lenti di chi non aveva fretta. La modernità bussava timidamente alle porte, ma non aveva ancora stravolto la vita di tutti i giorni. Qui il tempo era un’altra cosa, non correva come oggi, era un alleato che scandiva le giornate con un ritmo ancestrale.
La vita nelle campagne seguiva il ciclo della natura. I pastori, con il volto cotto dal sole e dal vento, accompagnavano le pecore sui pascoli.
Loro erano i veri custodi dell’isola, capaci di leggere la terra e le stagioni con uno sguardo. La fatica era una compagna quotidiana, ma non c'era lamentele, perché la vita era quella, e la si accettava con una dignità che oggi sembra perduta. La sera, quando il cielo si tingeva di arancione, si radunavano davanti a un camino, con il fuoco che crepitava e la famiglia riunita. Il profumo del pane carasau appena sfornato riempiva la stanza, e quel sapore semplice era tutto ciò di cui avevano bisogno. Nessun lusso, solo la concretezza di una vita vissuta intensamente, radicata nelle piccole gioie quotidiane.
A quei tempi, ogni festa paesana era un evento che interrompeva la monotonia del quotidiano. Le sagre, con i balli al suono delle launeddas, richiamavano tutto il paese.
Le donne indossavano i costumi tradizionali, ricamati a mano con una pazienza infinita, tramandati da madre in figlia come preziosi tesori. Ogni sagra, ogni processione, era un tuffo nella storia e nelle radici di un popolo orgoglioso della propria identità. Ci si stringeva in un abbraccio collettivo, dove non esistevano estranei, perché la comunità era tutto. Oggi, guardiamo a quegli eventi con una nostalgia che sa di lontananza, di un tempo che non tornerà.
Negli anni 60?, la Sardegna non era ancora invasa dai turisti. Le sue spiagge erano deserte, regno dei pescatori e delle loro barche in legno. La Costa Smeralda iniziava appena a far parlare di sé, con il primo jet set internazionale che scopriva le sue acque cristalline, ma per la gente comune, il mare era un luogo dove si andava a pescare, non a prendere il sole. Si viveva di ciò che la terra e il mare offrivano, e la parola “supermercato” non faceva parte del vocabolario. Le botteghe di paese erano il fulcro della vita sociale, dove ci si scambiava chiacchiere e consigli, dove tutto sembrava avere un valore diverso.
E poi c’era la televisione.
Chi ce l'aveva era quasi un re, perché la TV era una finestra su un mondo lontano, che sembrava irraggiungibile. I bambini si ammassavano nelle case dei vicini per vedere i primi programmi, e si rideva insieme, con una spontaneità che oggi sembra scomparsa. Le serate trascorrevano sotto cieli stellati, senza cellulari, senza schermi a distrarre, solo parole e racconti che passavano di bocca in bocca, di generazione in generazione.
La Sardegna di quegli anni era un'isola di valori, di legami forti, dove il rispetto per gli anziani era sacro e la parola data era inviolabile. Oggi, camminando per quei borghi, si avverte un senso di vuoto. Le nuove generazioni, pur avendo guadagnato tanto, hanno perso forse qualcosa di più grande. La modernità ha portato progresso, ma ha anche spezzato quel filo invisibile che univa la comunità. Le strade asfaltate, i centri commerciali e i resort di lusso hanno cambiato il volto dell’isola, ma non possono restituire il sapore di quelle notti passate attorno al fuoco, con il suono delle launeddas che risuonava nelle valli.
Chi ha vissuto quegli anni li ricorda con un sorriso malinconico. Era una Sardegna meno ricca di beni materiali, ma infinitamente più ricca di umanità. Un luogo dove la vita si gustava lentamente, dove il lavoro era duro ma dava soddisfazione, dove le persone si parlavano guardandosi negli occhi. E forse, oggi, in questo mondo che corre troppo veloce, avremmo bisogno di ritrovare un po’ di quella magia, di tornare a vivere con la stessa semplicità e intensità.