Il 5 settembre del 1938, Vittorio Emanuele III firmò il primo decreto che, due mesi dopo, avrebbe portato all’approvazione delle leggi razziali italiane. Fortemente volute da Benito Mussolini, furono giustificate dallo stesso Duce con parole che sanciscono la visione ideologica del regime: “Gli imperi si conquistano con le armi, ma si mantengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime”.
Il Decreto-Legge 17 novembre 1938-XVII, n.1728, segnò formalmente l’adozione dei “provvedimenti per la difesa della razza italiana”. Nel testo si stabiliva il divieto di matrimonio tra cittadini italiani di "razza ariana" e appartenenti ad altre razze, dichiarando nulli gli eventuali matrimoni celebrati. Qualsiasi matrimonio con cittadini stranieri richiedeva l’autorizzazione del Ministero dell’Interno, e chi trasgrediva era punito con sanzioni amministrative e, in alcuni casi, con la perdita del lavoro.
Il decreto definiva chi fosse considerato di razza ebraica, includendo non solo chi aveva entrambi i genitori ebrei, ma anche chiunque fosse nato da un solo genitore ebreo o avesse mostrato appartenenza a una comunità israelitica. Questa rigida definizione fu il punto di partenza per l’esclusione degli ebrei dalla società italiana. Le norme vietarono agli ebrei italiani di prestare servizio militare, di possedere aziende con più di cento dipendenti, terreni o fabbricati oltre un certo valore catastale. Fu loro impedito di lavorare nelle amministrazioni pubbliche o di avere cittadini italiani come dipendenti domestici. Anche la sfera familiare fu colpita: un genitore ebreo poteva perdere la patria potestà sui figli se l’educazione fornita non fosse stata considerata conforme agli ideali del regime.
Gli ebrei stranieri furono colpiti con particolare durezza. A loro fu proibito stabilire una residenza stabile nel Regno o nei territori coloniali, e chi vi era arrivato dopo il 1919 dovette lasciare il Paese entro il marzo del 1939, pena l’arresto o l’espulsione. Le concessioni di cittadinanza italiana fatte a ebrei stranieri dopo il 1919 furono revocate.
Il decreto impose anche il licenziamento degli ebrei dalle amministrazioni pubbliche entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge. Alcune categorie, come i mutilati di guerra o gli iscritti al Partito Nazionale Fascista nei suoi anni fondativi, poterono ottenere deroghe, ma solo previa approvazione di una commissione apposita.
Questo complesso di norme non fu solo un insieme di regolamenti discriminatori, ma il preludio alle deportazioni di massa nei campi di concentramento, aprendo la strada a una tragedia umana senza precedenti. Ricordare il linguaggio freddo e burocratico di quei decreti significa riflettere su come l’ideologia possa trasformarsi in uno strumento di esclusione e persecuzione. Il decreto del 17 novembre 1938, firmato da Vittorio Emanuele III e Mussolini, rimane il simbolo di un periodo in cui lo Stato italiano tradì i suoi stessi cittadini. Questo ricordo è un monito perenne contro ogni forma di discriminazione e ingiustizia, affinché nulla di simile accada mai più.