Alle ore undici e trentacinque, quando il cielo sopra Huy ha cominciato a chiudersi in un
manto grigio e cupo, è partita la carovana. Duecentocinque chilometri e centinaia di battiti
del cuore da domare, sotto un cielo che promette pioggia e mantiene parola. È la Freccia
Vallone, è il tempio del Muro di Huy, è l’appuntamento con la leggenda.
Nemmeno il tempo di sentire lo scricchiolio del primo cambio che già cinque temerari si
staccano dal ventre molle del gruppo come frecce scoccate da un arco troppo
teso: Simon Guglielmi, Artem Shmidt, Ceriel Desal, Tom Paquot e Siebe Deweirdt.
Cinque nomi scolpiti nella cronaca, cinque uomini che scelgono l’ignoto. Il gruppo li
guarda, li lascia andare. Il cronometro dice 45 secondi, poi 1 minuto, poi 2 e 15… e poco
importa se il vento sibila e la pioggia comincia a graffiare i visi: loro vanno.
Ma la corsa, come la vita, è fatta di strappi e rincorse. La Côte de Ver si presenta con le
unghie affilate e il gruppo si ridesta dal torpore. La Soudal Quick-Step di Remco
Evenepoel, cavaliere dell’equilibrio perfetto tra potenza e destino, prende in mano il
timone e inizia la lunga opera del riavvicinamento.
Quando la corsa entra nel vivo, a -154 chilometri dall’arrivo, piove. Non pioviggina, non
minaccia: piove davvero, di quelle piogge che impastano le gambe e lavano via le
illusioni. Ma i fuggitivi non si fermano. Tobias Foss della Ineos scatta come se avesse
ascoltato il richiamo di una voce antica. Gli si incolla Robert Stannard, e a -135 chilometri
la fuga si ricompone, si rinsalda, si allunga.
Poco dopo anche Fredrik Dversnes e Andreas Leknessund, due norvegesi nati per
sfidare il freddo e l’impossibile, si staccano dal gruppo. C’è una fiammella che arde nel
cuore di questi uomini: la speranza di scrivere il proprio nome dove solo i giganti
sono passati.
La corsa entra nel circuito finale. Il trittico di muri fa paura. Le gambe tremano, le bocche si
serrano, i visi si fanno bianchi sotto la pioggia. Il Muro di Huy si presenta come un giudice
antico e severo, e i primi a pagare sono proprio i più generosi: Deweirdt si rialza, Paquot
perde contatto, e infine anche Guglielmi e Shmidt devono piegare il capo.
Nel gruppo si comincia a fare sul serio. La UAE Emirates, fino ad allora spettatrice
attenta, si unisce alla sinfonia del comando insieme alla Lidl-Trek. I nomi dei grandi
cominciano a venire fuori, Stephen Williams, il campione uscente, accusa il colpo. La
gara morde.
Cadono in tanti, come birilli al termine d’un gioco crudele: tra loro anche Mattias
Skjelmose, vincitore della Amstel, che si rialza con la fierezza dei vinti. Il gruppo, a 37 km
dall’arrivo, è una macchina d’assedio. I superstiti della fuga non hanno più futuro, solo
passato glorioso.
Poi, come in ogni leggenda che si rispetti, arriva l’epilogo con la firma dei titani.
A -5 chilometri dalla verità, Tadej Pogacar, con lo sguardo di chi sa dove deve andare, si
lancia in discesa. È il lampo. Dietro di lui, Remco Evenepoel risponde. Si guardano, si
marcano, si sfidano con la classe dei predestinati. Il gruppo si ricompatta, ma l’aria ha
cambiato densità. Sta per accadere qualcosa.
Ed eccolo, il momento eterno.
Ultimo passaggio sul Muro di Huy. 1300 metri al 9,6%, punte al 19%. Il mondo
rallenta.
La salita si stringe, le urla si fanno echi lontani. E lì, quando il cuore chiede tregua,
Pogacar fa quello che solo i campioni sanno fare: cambia passo.
È un colpo di pedale che non è solo forza: è arte, è ribellione, è poesia.
Remco non può rispondere. Gli altri? Solo spettatori.
Tadej Pogacar taglia il traguardo con la calma dell’eroe che ha appena aggiunto un
capitolo alla propria leggenda.
Vince la Freccia Vallone 2025.
Non c’è bisogno di dire altro.
Il Muro ha parlato.
La Storia ha ascoltato.