La frocciaggine, l'albero fucsia e il prete social: Verona tra sacro e (troppo) profano

  A Verona, patria dei sospiri di Giulietta e Romeo, si consuma adesso un dramma del tutto insolito. Altro che struggimenti d’amore, qui l’affaire è un albero di Natale fucsia piantato davanti alla chiesa dello Spirito Santo. Un pugno negli occhi che trasforma la sacralità del luogo in un circo kitsch. L’installazione, firmata dall’amministrazione comunale, ha scatenato le ire di un prete con velleità social, Don Ambrogio Mazzai, che ha definito l’iniziativa “troppa frocciaggine in Comune”.

  Parole forti, certo, ma non prive di un fondo di verità se si guarda all’oscena accoppiata tra presunta modernità e pessimo gusto. Non si tratta, badate, di un semplice albero: è una specie di totem disgraziato che, agli occhi del prete, fa il paio con quanto il Papa avrebbe sussurrato su certe “arie di frocciaggine” in Vaticano. Cose dette per sdrammatizzare, forse, ma che qui risuonano amare come una campana rotta. Don Mazzai, sarcastico come pochi, definisce l’albero una “fantastica opera d’arte”, illuminata a spese del contribuente: più che un regalo alla città, un balzello estetico imposto dall’alto, a beneficio di chi?

  Nella sua filippica online, il sacerdote stuzzica la coscienza collettiva: con tutti i soldi spesi, non si poteva allestire un presepe tradizionale, vero simbolo del Natale e della comunità? Invece no: meglio un lampadario fucsia a grandezza naturale, sbrilluccicante e vuoto, che illumina il nulla cosmico. Verona, città d’arte e di storia, si ritrova così spaccata su un bislacco oggetto di polemica. Da una parte chi difende la trovata come “innovazione”, dall’altra chi non ne può più di questa mania di stupire a tutti i costi. L’albero fucsia diventa allora uno specchio implacabile: vi si riflettono la decadenza del gusto, il vuoto culturale, l’incapacità di rispettare la tradizione. E stavolta non è questione di bacchettoni contro progressisti: qui stiamo parlando di buon senso elementare, di misura, di rispetto. O vogliamo ridurre il Natale a una provocazione da social, a un hashtag da quattro soldi?

  Il prete social, con la sua frase colorita, svela una verità scomoda: abbiamo perso il filo, ci arrabattiamo con trovate prive di significato, fingendo siano nuove idee. Una comunità non si riconosce in un albero ridicolo, semmai nel presepe, nella tradizione che unisce invece di dividere. Invece tocca assistere allo show del Comune e alla provocazione del sacerdote, entrambi attori di un teatrino disperante dove le parole “frocciaggine” e “fucsia” sostituiscono quelle ben più serie di “fede” e “identità”. Ecco Verona, in un assurdo dicembre, dove il Natale si riduce a una polemica sui colori di un albero. Siamo al punto di non ritorno: abbiamo schiacciato la sacralità, l’abbiamo ridotta a spot pubblicitario, ad addobbo sparato a caso davanti a una chiesa. E a pagarne il prezzo, ça va sans dire, non è l’estetica né l’amministrazione, ma la comunità, privata di un momento di raccoglimento autentico. Un Natale così mette solo tristezza, e ce la meritiamo tutta.

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