Sì, cari lettori, pare che l’ecologia abbia preso una piega goliardica. Da qualche giorno, nei meandri selvaggi dei social sardi, impazza un video girato in un supermercato lombardo – o forse in qualche reame padano ancora convinto che la canna da zucchero cresca al Nord – che mostra, senza un briciolo di pietà lessicale, una pila di “Piatti 23 cm bagassa”.
Ora, in italiano “bagassa” è una cosa seria. È il sottoprodotto della raffinazione della canna da zucchero. Un rifiuto nobile, verrebbe da dire, che si trasforma in oggetti biodegradabili: piatti, posate, bicchieri. Tutto molto green, tutto molto woke. Ma, ahimè, in Sardegna “bagassa” non significa affatto un piatto che fa bene all’ambiente. Anzi, da noi, “bagassa” è la più colorita delle offese, il modo sbrigativo per dare della donna di facili costumi. Altro che compostaggio: qui si parla di reputazione.
Il popolo del web, sardo e fiero, non poteva che scatenarsi. Meme, commenti, risate amare come il mirto troppo secco. Alcuni propongono ironicamente l'acquisto in stock per le feste paesane (“Almeno se rompono, è pure giusto”), altri suggeriscono che finalmente anche la sostenibilità abbia trovato una sua identità isolana.
Verrebbe quasi da pensare che il marketing bio abbia bisogno urgente di un dizionario etnografico. Oppure, più semplicemente, di un viaggio in Sardegna, dove certe parole non si pronunciano neppure sotto tortura.
E allora, se proprio volete risparmiare il pianeta, cari produttori di stoviglie green, almeno risparmiateci l’imbarazzo di dover spiegare alla nonna che “bagassa” non è quello che pensa. Anche perché, da noi, “piatti bagassa” suona come una bestemmia detta tra i carciofi. E francamente, non è un bel modo di servire la cena.