Con l’ingresso alla Casa Bianca, Donald Trump mise subito in chiaro che uno dei pilastri del suo programma sarebbe stato la lotta all’immigrazione illegale. Per lui, il confine meridionale non era solo una linea geografica, ma il simbolo di un’America che aveva perso il controllo su chi entrava e usciva dal proprio territorio. Costruire un muro al confine con il Messico non era solo una promessa elettorale, ma una visione che incarnava il suo mantra: prima l’America e gli americani.
Questa visione iniziò a tradursi in azioni concrete nei primi mesi del 2017. Trump firmò ordini esecutivi per rafforzare le politiche di immigrazione e iniziò a riorganizzare l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), ponendo maggiore enfasi sull’arresto e la deportazione di immigrati senza documenti. Tuttavia, il provvedimento che segnò il vero punto di rottura fu il travel ban, un decreto che bloccava temporaneamente l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana. Presentato come una misura di sicurezza nazionale, il travel ban suscitò proteste in tutto il Paese e attirò critiche da parte di alleati internazionali. Eppure, per molti dei suoi sostenitori, questo decreto rappresentava l’essenza stessa del Trump presidente: un leader che non temeva di prendere decisioni impopolari in nome della sicurezza del suo Paese.
Il tema dell’immigrazione fu centrale anche sul piano legislativo. Trump portò avanti una battaglia serrata con il Congresso per ottenere i fondi necessari alla costruzione del muro lungo il confine con il Messico. Le immagini delle sue visite al confine, con le sezioni del muro erette alle sue spalle, divennero simboliche, quasi iconiche. Tuttavia, il muro si trasformò in una questione altamente divisiva. Da un lato, i suoi sostenitori lo vedevano come un baluardo contro l’immigrazione incontrollata e la criminalità; dall’altro, i suoi oppositori lo consideravano uno spreco di denaro e un insulto ai valori di accoglienza su cui si fondano gli Stati Uniti.
Nonostante i contrasti, Trump riuscì a far costruire oltre 700 chilometri di barriere durante il suo mandato, pur non completando l’intero progetto. Il suo approccio all’immigrazione si estese anche a programmi come il DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals), creato da Obama per proteggere i cosiddetti "Dreamers", giovani immigrati arrivati illegalmente negli Stati Uniti da bambini. Trump tentò più volte di eliminare il programma, suscitando un acceso dibattito nazionale, ma i tribunali bloccarono molte delle sue iniziative.
L’effetto di queste politiche non si limitò agli Stati Uniti. In Europa, i governi iniziarono a guardare con attenzione e preoccupazione alle mosse di Trump, specialmente nei Paesi mediterranei come l’Italia, direttamente coinvolti nella gestione dei flussi migratori. La sua linea dura trovò eco in alcune correnti politiche italiane, che vedevano nella sua azione un modello per contenere l’immigrazione irregolare. Tuttavia, il messaggio di Trump era chiaro: ogni Paese deve occuparsi dei propri problemi. Non ci sarebbe stata tolleranza per chi abusava del sistema americano.
Il rapporto tra Stati Uniti e Messico subì un duro colpo. Le tensioni tra Trump e il presidente messicano Enrique Peña Nieto furono evidenti fin dall’inizio, con quest’ultimo che rifiutò categoricamente di finanziare il muro, come Trump aveva più volte dichiarato in campagna elettorale. Nonostante ciò, il dialogo tra i due Paesi continuò, con accordi bilaterali che misero comunque il Messico sotto pressione per contenere i flussi migratori diretti verso il nord.
Ma cosa significava tutto questo per il resto del mondo? La presidenza Trump segnò un cambio radicale nella politica migratoria globale, inviando un messaggio che molti Paesi occidentali non poterono ignorare: la priorità doveva essere la sicurezza nazionale. La retorica di Trump, per quanto polarizzante, ebbe l’effetto di riportare il dibattito sull’immigrazione al centro della scena internazionale, ridefinendo i confini tra sovranità e accoglienza.
Per l’Italia, l’approccio di Trump rappresentò una sfida. Da una parte, la linea dura sull’immigrazione risuonava con il sentimento di una parte del Paese che si sentiva abbandonata nella gestione dei flussi; dall’altra, l’immagine di un’America chiusa e ostile non era priva di conseguenze sul piano economico e culturale. Tuttavia, Trump mantenne aperto il dialogo con l’Italia, riconoscendo l’importanza strategica del nostro Paese come ponte tra Europa e Mediterraneo.
Le politiche sull’immigrazione di Trump furono e sono tuttora una battaglia culturale che ridisegnò l’immagine degli Stati Uniti nel mondo. Con lui, l’America si presentava come una nazione forte, sovrana, che non temeva di proteggere i propri interessi. Nel prossimo articolo esploreremo un altro nodo centrale della sua presidenza: il rapporto con la Russia e l’Europa, tra promesse di cooperazione e nuove tensioni. Restate con noi: l’era Trump continua a svelarsi.